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Dal prof. Tano Schifano un inedito del suo prossimo saggio sul Vallone, in esclusiva per i lettori di Castello Incantato

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Mussomeli – Estate di parole ed emozioni. Di verità svelate, celate, rivelate, per chi parte e per chi resta, in campagna o in città. Ecco, a dispetto dello spiritoso tentativo del New York Times, che ha messo al primo posto tra i cento romanzi del secolo, “L’amica geniale”, Castello Incantato vuole offrire ai suoi lettori, per la settimana più caliente dell’anno, l’anteprima assoluta di un inedito locale. Un generoso estratto, di un’opera ben più vasta e complessa, altrettanto generosamente concesso dal suo autore, il prof. Tano Schifano, che si sta adoperando, in tutti i modi, per potere dare alle stampe, prima possibile, la sua ultima e grandiosa fatica letteraria che, invero, rappresenterà una svolta per quella che è la storia locale, di Mussomeli e del Vallone. Un privilegio che l’autore, visibilmente emozionato per le sensazionali scoperte fatte in questi anni, ha voluto concedere alla nostra testata e condividere con i nostri lettori. Sotto l’ombrellone o sotto l’albero, poco importa, convinti come siamo che Mussomeli, oormai vocata al femminile nell’immaginario, ancorchè nel lessico, collettivo, al di là dei racconti e delle leggende tipiche del comune sentire, una pagina “seria” di storia identitaria, davvero se la meriti. Tanto più se a questa spetti il gravoso, ma doveroso, compito di ristabilire e restituire la verità al popolo. Quel popolo, per ovvi motivi, assente da qualsivoglia “cronaca” del tempo. Almeno fino ad oggi. Bene, e poichè, a noi, invece, è affidato l’altro, non meno gravoso, compito che è quello di dire e non dire, ci limitiamo a presentarvi la pagina dell’opera del prof. Schifano che, alla vigilia dei festeggiamenti del castello, accenderà di sicuro, in ognuno di noi lettori, un barlume di (in)sana curiosità. E forse, quando ci appresteremo a salire l’erta ripida del regno di Manfredi, lo faremo con uno spirito e un atteggiamento differenti da prima.  L’atteggiamento incontestabile che viene dalla consapevolezza…

“IL “CLAN” CHIAROMONTE

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Ma chi erano questi Chiaromonte che tanta parte e peso ebbero nelle vicende dell’isola e la cui stella brillò per oltre un secolo, anche con una certa enfasi da parte di tanti scrittori di storia patria, non solo nelle vicende di Sicilia, ma anche in quelle nostre locali ?

La storia di questa famiglia, forse spagnola al seguito di Pietro III d’Aragona (come afferma l’Inveges senza averci adeguatamente convinto) o più probabilmente francese, forse originaria della Normandiacome gli Altavilla o della Piccardia, ma insediatisi in Italia meridionale in origine e senza una sola prova abbastanza convincente che facessero parte della prima ondata normanna, cominciò ad avere un peso specifico su quella siciliana solo ai primi del Trecento. Infatti, si parla di Chiaromonte, vescovi e feudatari, presenti all’incoronazione di Ruggero II nel 1130, ma sembrano più tentativi di nobilitazione delle origini che dati realistici. Furono sicuramente intraprendenti e decisi, come tanti cavalieri di “ventura” che nulla avevano da perdere e che dovevano crearsi un “avvenire”, come del resto tanta parte della maggiore nobiltà siciliana,  e loro caratteristica fu, badando sempre a non perdere la proprietà e il controllo dei feudi man mano acquisiti con la forza o l’astuzia, di insediarsi nella città e terre demaniali. In esse risiedeva la gran parte della popolazione siciliana e circolavano maggiori quantità di denaro, crescevano i commerci e si sviluppavano arti e mestieri; in questi luoghi e terre, o almeno nei loro dintorni c’erano coltivazioni privilegiate e di alta resa come vigneti ed oliveti, quivi abitavano i maggiorenti economici e politici che diverranno loro punto di riferimento  e costituiranno la principale base d’appoggio del loro potere; finché la monarchia non ebbe un esercito proprio e dipendeva dalle milizie feudali, essa traeva il suo sostentamento quasi esclusivamente da terre e città demaniali con gabelle e tasse varie: controllarle o impadronirsene significava non solo dominare a proprio uso e consumo il flusso di denaro, ma voleva anche dire detenere il potere reale e tenere in ostaggio la monarchia stessa. Addirittura in funzione e in conseguenza della ricchezza e del suo controllo per secoli si verificherà un continuo cambio/capovolgimento di ruoli di terre e città, dallo stato demaniale a quello feudale e viceversa, sia durante la perdurante debolezza della monarchia aragonese, sia durante quella “furbesca e assetata” di Alfonso il Magnanimo che, con incredibile faccia tosta, speculò su questo modo di procedere, vendendo e facendo riscattare le città demaniali.

Fu proprio l’occupazione militare a vario titolo delle principali città demaniali, Palermo e Agrigento in primis, la primaria strategia della famiglia Chiaromonte; altro punto di forza del loro strapotere, come delle altre dominanti famiglie siciliane, fu quello di legare strettamente a sé la nobiltà minore delle terre confinanti con le loro proprietà, in modo da creare una compatta base di appartenenza territoriale (si difendeva o s’ingrandiva la propria casa e terra) e una serie di legami amministrativi e di impunità tali da convincere tutti dell’appartenenza alla stessa famiglia, avere gli stessi interessi di crescita come gli stessi obblighi di difesa in caso d’invasioni estranee. 

Ma come e quando cominciò quella che Michele da Piazza definì nella sua opera “nefanda sceleritas Claromontum”  e re Ludovico di Sicilia  (1342-1355) “velenosa progenie … i quali scendendo nel profondo dei mali si sforzano di rovesciare la nostra corona e sottomettere il popolo, nostro per eredità, a un re straniero” ?

Il capostipite, riconosciuto e documentato, della dinastia fu Federico I Chiaromonte il quale trovò “un posto al sole” sposando la nobile e pia Marchisia Prefolio, amica di Costanza d’Altavilla (la figlia di Manfredi lo Svevo divenuta poi regina di Sicilia con Pietro I d’Aragona), ma soprattutto ricca in quanto titolare di numerosi e pregevoli possedimenti nell’agrigentino, oltre che erede dei beni (Caccamo) del fratello morto (1286) senza figli; con la famiglia Prefolio in seguito furono mantenuti sempre buoni rapporti perché un Francesco Prefolio fu nel 1360 vicario nella contea di Modica di Federico Chiaromonte, mentre un Giacomo Prefolio fu nominato procuratore, assieme a Ruggero Standolfo, per il riscatto nel 1339 di Giovanni Chiaromonte, prigioniero del re di Napoli.

Questo fu solo il primo dei tanti gradini di una lunga ed ininterrotta arrampicata sociale, politica ed economica, perché i tre figli di questo matrimonio, Federico II, Giovanni I il Vecchio e soprattutto Manfredi I, fecero ancora di più e meglio nel cercare e sposare donne con superdoti (matrimoniali), non disdegnando relazioni extraconiugali e senza esitazione alcuna di fronte ad amicizie, parentele, e consanguineità “inglobando e divorando quello che era assimilabile, distruggendo inesorabilmente quello che li ostacolava”, con “un’evoluzione che trasformò i Chiaromonte da un’oscura ed anonima famiglia ghibellina, proveniente dal mezzogiorno peninsulare, in una delle più potenti ed influenti casate isolane”.

Attuarono da subito una politica di crescita territoriale ed economica senza alternative per gli sventurati avversari, sempre aggressiva e per niente rispettosa dei diritti altrui, specie di chi aveva la sfortuna di confinare con i loro possedimenti, fossero anche parenti; tale strategia fu ancora più mirata, esclusiva e decisa nei confronti dei beni demaniali, soprattutto nei momenti di maggior debolezza della corona. Città come Noto, Agrigento e Palermo, per citare le più importanti, divennero sedi preferenziali e residenziali, soprattutto Palermo, dove i Chiaromonte, estromettendo il re e costringendolo ad abitare a Messina o Catania, radicarono il potere principale, gestendo entrate, affittando a privati pascoli, terre e pertinenze demaniali come fossero personale ed esclusiva proprietà. Una stella, comunque, che smetterà di brillare solo alla fine del XIV secolo, spenta definitivamente dall’avvento dei Martini. 

I loro archivi sono andati in gran parte distrutti nel 1447, ma sappiamo che gestivano tutti i possedimenti ed attività tramite una fitta rete di relazioni personali con funzionari, tesorieri, giudici, pretori, notai utilizzando spesso le casse delle città demaniali controllate per pagare le transazioni commerciali. Avevano un magister massarus, certo per ogni gruppo di proprietà viciniori, che si occupava della conduzione e dei redditi delle terre e delle coltivazioni, dei pascoli e del bestiame; avevano procuratori come Dino Bandi (Giovanni Chiaromonte) e Jusuf de Chentorbi (Simone Chiaromonte) che si occupavano della raccolta delle entrate provenienti da affitti di case e botteghe e commercio; Manfredi III fu legatissimo a Genovesi e Pisani ed aveva un tesoriere genovese, tale Lanzarotto Cattaneo, per gli affari extra regno e un tesoriere amministratore dei cereali, tale Federico de Federici, che si occupava del frumento raccolto ad Agrigento e della sua vendita ai Genovesi, oltre che degli altri commerci. In pratica, la famiglia aveva il controllo della produzione e della vendita di quasi tutto il frumento della Sicilia occidentale con contratti esclusivi ai mercanti genovesi, gestendo in maniera autonoma il caricatore e porto di Pozzallo, anche se alla fine sembra che non siano stati buoni/onesti amministratori delle loro sostanze se, morto Manfredi III, le figlie furono condannate dalla Corte Pretoriana di Palermo a pagare i debiti del padre.

Secondo la Descriptio feudorum del 1335, essi entrarono nella nostra storia locale proprio nel 1335, quando Giovanni I il Vecchio, dopo aver ottenuto il Casale di Muxaro (Ag) cedendo in cambio alcune botteghe in Agrigento e continuando la sua strategia di occupazione territoriale nel Val di Mazzara, acquisì anche il casale Petra Musumeli, che nel 1271 era stato di Pietro de Puygvert, miles provenzale al servizio degli Angiò, ed era tornato alla Curia nel 1282 coi Vespri.”

Continua…

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