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Dal superteste troppi «non ricordo» al processo quattro ergastolani condannati per sue intercettazioni

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Caltanissetta – Mille «non ricordo», mezze conferme a denti stretti e tanti «non so, ma se l’ho detto… sarà così». Deposizione fiume, andata avanti per oltre cinque ore, quella del superteste del processo d’appello per il delitto del riesino Salvatore Fiandaca. Per la prima volta il ventinovenne di Riesi è stato sentito in aula. In primo grado le sue intercettazioni erano state determinanti per quattro condanne all’ergastolo e una quinta condanna per un giovane che avrebbe procurato il fucile. Ma non era mai stato sentito prima. Se non soltanto a sommarie informazioni a metà marzo scorso dai sostituti procuratore generali Antonino patti e Gaetano Bono. E in quella circostanza il giovane avrebbe sostanzialmente messo in discussione tutti quei passaggi che, in precedenza, avevano finito per contribuire a  incastrare gli imputati.

E anche adesso, in aula, ha ribadito più volte che a quel tempo, oltre a essere stretto nella morsa delle depressione – come lo sarebbe a tutt’oggi insieme ad altre patologia psichiatriche – avrebbe anche fatto uso di stupefacenti, ecstasy compresa.

«Sentivo voci di paese e mi sarò costruito una mia verità», ha spiegato il teste, a lungo sottoposto al fuoco di fila di domande sui suoi rapporti personali neo vice coordinatore vicario regionale di «Rete per la legalità – Sicilia» e le intercettazioni sull’auto. La cui genuinità, peraltro, è messa in discussione anche dalla stessa accusa. Perché di questo argomento, e non soltanto, secondo lo stesso teste, ne avrebbero parlato prima fuori dall’auto e poi dentro, dov’erano nascoste le microspie.

L’ombra di una certo “ascendente” sul teste che s’addensa, per la formazione di uno scenario che è stato quello portante del primo processo e che ha sortito le condanne al carcere a vita dei riesini Michael Stephen Castorina, Pino Bartoli, Giuseppe Antonio Santino e Gaetano Di Martino – assistiti dagli avvocati Vincenzo Vitello, Giovanni Maggio, Michele Ambra, Adriana Vella  e Angelo Asaro  – e  Loris Cristian Leonardi – assistito dagli avvocati Carmelo Terranova e Giada Faraci – condannato a cinque anni in primo grado perché accusato di avere fornito l’arma con cui è stato ucciso Fiandaca.

Nei loro confronti i familiari della vittima – assistiti dagli avvocati Walter Tesauro e Giovanni Pace) sono  costituiti parti civili.

«Non nego quello che ho detto ma sono solo voci che mi sono costruito in mente mia… voci di paese e non ricordo che qualcuno sia venuto a casa mia per parlarmi dell’omicidio», ha più volte ripetuto il teste. E, in taluni frangenti mettendo anche a dura prova la pacatezza dell’accusa che, a un certo punto, è sbottata d’improvviso con un «in questi anni si è posto il problema che da sei anni queste persone sono in carcere?». E per smorzare i toni, la corte d’Assise d’Appello ha sospeso per qualche minuto l’udienza. O in un altro passaggio ancora della sua audizione quando, sempre l’accusa, rivolgendosi allo stesso teste lo ha redarguito con un «lei è straordinariamente sveglio o “addurmisciutu” in funzione dei fatti.. lei non lo è “addurmisciutu” , lo sta solo facendo…».

In un altro momento ancora della sua testimonianza ha poi spiegato che gli sarebbe stato riferito, sempre dal suo interlocutore, «che alcune intercettazioni si possono tagliare e altre rimane», un passaggio rimasto così e non chiarito.

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