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E’ sepolto a Motta Sant’Anastasia Luz Long, il tedesco che, nell’Olimpiade del 1936, a Berlino, suggerì all’avversario la strategia vincente

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Mussomeli – Nel corso di quelle che, a buon diritto, possiamo definire “le Olimpiadi della polemica” e, a distanza di qualche giorno da quel 4 agosto che, invero e contro ogni logica agonistica, rappresenta una pietra miliare dell’agone sportivo più importante di tutti i tempi, un collegamento con i Giochi Olimpici di Berlino del 1936 ci pare d’obbligo. Tanto più che la storia -duplicemente intesa- ci riguarda da vicino, più di quanto non si possa pensare. A lambire quel tratto di costa siciliana che tanto ha da dire sullo “sbarco” per eccellenza, fatto, questo, che ha segnato inequivocabilmente il destino della nostra terra.

La storia ci viene segnalata da Maurizio Messina, assiduo lettore del giornale, per democratica imposizione del destino (ndr), oltre che per libera scelta personale. Una storia che parte da lontano e unisce più e più mondi, nell’abbraccio fraterno che va oltre i confini della sfida. La Germania altezzosa di Adolf Hitler alla vigilia del 1936, il nipote di uno shiavo afroamericano, che guadagna il privilegio di partecipare alla XI Olimpiade di Berlino, e una tomba, anzi una fossa comune, che, fra gli altri, reca anche il nome di Luz Long, a Motta Sant’Anastasia, proprio a due passi da noi.

Lui, Luz Long appunto, è atleta tedesco, uno dei preferiti di Adolf Hitler e, nel fatidico 4 agosto 1936, si trova a competere nella prova del salto in lungo con Jesse Owens, giovane corridore afroamericano che, grazie al suo avversario, diventerà l’eroe di queste Olimpiadi, conquistando quattro medaglie d’oro. Due uomini, apparentemente avversari, ma che, al momento della competizione, hanno regalato al mondo un’immagine sorprendente di sportività e generosità. Dando vita ad una vera e propria leggenda che ci piace contribuire a tramandare nel tempo.

Due uomini che hanno osato sfidare il terzo Reich dimostrando che lo sport può realmente unire le persone, al di là della nazionalità e del colore della pelle. La storia di una sfida, la storia di un’amicizia consumatasi sotto gli occhi del fuhrer e dei suoi comandanti. E degli oltre 100mila spettatori dello stadio che, quel giorno, assistettero all’arrivo della fiamma olimpica. Per la prima volta nella storia delle Olimpiadi, diversi tedofori si succedettero per portare la torcia da Olimpia, luogo in cui è stata accesa, fino a Berlino. Una rievocazione inventata dalla Germania nazista e in uso ancora oggi.
Carl Ludwing Hermann Long soprannominato Luz e James Cleveland Owens, ai più noto come Jesse, non si sono mai visti prima, ma sanno che, prima o poi, dovranno affrontarsi. Hanno entrambi ventitrè anni e lo spirito dell’età che li accomuna. Ma, per il nipote di uno schiavo, nato nel Sudamerica dove raccoglie cotone dall’età di sei anni, entare in uno dei più imponenti stadi del mondo è un’incredibile rivincita. Lui, Jesse Owens, ha iniziato a correre in Alabama per provare quella sensazione di totale libertà. Libertà assoluta! E solo dopo è divenuto il mito che la storia ci ha consegnato con l’epiteto di “antilope d’ebano”. Il mito dell’atleta nordamericano capace di mandare all’aria le teorie sulla supremazia della razza bianca.

Al contrario, il suo competitor, Luz Long, proviene da una famiglia borghese, farmacisti di Lipsia. Oltre allo sport, Luz, è un bravo pianista e adorabile ballerino. Ama divertirsi e scherzare. Ottimista e amante della vita, in campagna dove cresce e pratica ogni tipo di sport. Qui, a dodici anni, costruisce la sua pista personale di salto in lungo. Poi l’incontro con l’allenatore Georg Richter farà di lui un campione. Gli piace la competizione. Per lui non sarà difficile sfondare nel mondo dello sport.

Dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, Jesse, invece, attende la svolta. Che arriva quando, con la famiglia, a nove anni, parte per l’Ohio, negli Stati Uniti settentrionali, all’epoca in pieno sviluppo industriale. Come molti altri afroamericani, la famiglia di Jesse lascia il sud per fuggire dalla miseria. Ma non alla ghettizzazione. Già al liceo Jesse incontra Charles Riley, il suo primo allenatore che, stupefatto dalle innate abilità fisiche del ragazzo, decide di dedicargli tutto il suo tempo e di insegnargli tutte le tecniche di base per sfondare in un settore in cui i nipoti degli schiavi di colore devono faticare più degli altri per dimostare di essere forti quanto i bianchi. Dove essere il migliore è importante! Ben presto diventa una leggenda nel mondo dello sport. Grazie ai campionati nazionali studenteschi del 1933 -che segnarono un punto di svolta nella sua carriera- potè essere ammesso all’Università dell’Ohio, e, grazie anche ai risparmi che il padre -a fatica- aveva messo da parte, proprio per questo. Poi, finalmente, la grande occasione. I Giochi Olimpici del 1936 che il CIO aveva assegnato a Berlino, nella sessione del 26 aprile 1931, superando la candidatura di Barcellona, scelta, a posteriori, quanto mai oculata stante il divampare, poi, della sanguiniosa “guerra civile” spagnola. Un’occasione anche per Adolf Hitler che, così, potrà dimostrare al mondo “la potenza e la grandezza” della sua Germania. Almeno nelle sue intenzioni!

Da New York ad Amburgo sono necessari otto giorni di viaggio. Durante la traversata Jesse annota le sue sensazioni sul viaggio, non una parola sulla segregazione presente anche a bordo. Gli afroamericani mangiano separati dalgi altri e dormono separati. Ma tutto questo fa parte della vita di Jesse da quando è nato. Lui pensa solo alla gara. E’ la prima volta che lascia gli Stati Uniti. E presto dovrà dimostrare di essere il migliore e di non inchinarsi al nazionalsocialismo. Ecco perchè è comprensibile il suo stupore di fronte all’accoglienza clamorosa del pubblico di Berlino.

Nell’estate del 1936 a Berlino regna un’atmosfera conviviale e di festa. Le bandiere con le svastiche si alternano, ad intervalli regolari, sui palazzi, ma i simboli più espliciti della politica antisemita del Reich sono vietati in città. Tutto al fine di ammaliare gli atleti e il pubblico stranieri. Uno specchietto per le allodole. Dietro il quale si nascondeva tutta un’altra Germania, una Germania dove non esistevano più oppositori politici e dove chi poteva opporre resistenza era già stato incarcerato da tempo o costretto a lasciare il paese fuggendo all’estero. E dove i campi di concentramento erano già stati creati.

I 312 membri della squadra americana vivono tutti assieme, senza distinzione di razza, in un’atmosfera piacevole, molto rilassata e informale, all’interno del villaggio olimpico, mentre Luz, ad esso, preferisce la quiete dell’albergo per potersi meglio concentrare.

A Berlino, Luz, ovviamente, è a proprio agio, nel suo ambiente, nello stadio che accoglie il suo fhurer con tutti gli onori. Un atteggiamento che incuriosisce e, allo stesso tempo, preoccupa Jesse, non proprio avvezzo alle parate se non a quelle private del duro allenamento sul campo. Intanto, le leggi antisemite e xenofobe sono state già votate. Gli Ebrei sono esclusi dai circoli sportivi. Ma Luz Long è cresciuto in una famiglia in cui lo spirito umanitario riveste un ruolo decisivo. E così sarà, nel bene e nel male, anche per la sua vita. Che lo vedrà coraggiosamente fare la sua scelta. Di campo.

In alcune lettere indirizzate alla madre, Luz scrive che la razza e il colore della pelle non avevano importanza per lui, che ogni popolo ha i suoi eroi e la sua forza. Una realtà ancora lontana per Jesse che, dall’altra parte dell’Atlantico, fatica a sopravvivere. Facendo mille lavori, anche i più umili, per aiutare la propria famiglia. Ma lo sport aiuta a spezzare le catene. E Jesse è veloce, molto veloce. Nonostante la politica segregazionista in vigore negli Stati Uniti, Jesse era stato attenzionato da diverse università. Nel 1936 a Berlino, lui, l’afroamericano, nipote di uno schiavo, è già una celebrità.

Ora, sono le 10.00 del mattino di ottantotto anni or sono, il pubblico si assembra agli ingressi dello stadio per assisstere alle qualificazioni del salto in lungo, gareggiano quarantaquattro concorrenti ma il pubblico non ha occhi che per due di loro, Luz, il nuovo detentore del record europero e Jesse, colui che ha stabilito il record mondiale. I giornalisti annunciano un acceso duello.

 

Indubbiamente fanatico, ma certamente non stupido, Hitler sa benissimo che i suoi “Jugend Athleten” non hanno alcuna possibilità di successo nelle gare di velocità pura, in cui Owens, appunto, trionfa, vincendo la sua prima medaglia d’oro nei 100 metri e divenedo il favorito del pubblico a Berlino. E questo era palese. Sicuramente una delle emozioni più grandi che un campione olimpico possa provare, trovarsi sul gradino più alto del podio e ascoltare il proprio inno nazionale.

Adolf Hitler è presente alla competizione, ma lascia lo stadio anzitempo, irritato. A differenza dei giorni precedenti in cui stringe la mano ai vincitori finlandesi, per Jesse, neanche uno sguardo.

Rimane allora solo questa, la gara del salto in lungo per tentare di infrangere il sogno americano di conquistare quattro medaglie d’oro, quello che ai collaboratori di Hitler fa dire “kein problem, mein Fhurer…!!!”, un rassicurante “nessun problema, mio Fhurer”, dettato più dal timore di contraddirlo che da un’effettiva speranza di riuscita.

Luz Long, in quella competizione, è il primo a gareggiare, il campione europeo in carica, il rappresentante della Germania, un uomo della sua epoca che, forse inconsapevolmente, fa parte di quella macchina da guerra che il terzo Reich sta approntando per addestrare i giovani e prepararli alle future battaglie. O, forse, inevitabilmente, un atleta che deve piegarsi al sistema -pena l’esclusione- di quell’ideologia nazista per la quale lo sport è un’arma. Nel tempo in cui la Germania non può ancora riarmarsi.

C’è comunque da dire che i tre lunghisti tedeschi iscritti alla gara, sono atleti di tutto rispetto, Wilhelm Leichum, Luz Long, Arthur Baumle, ragion per cui, dai piani alti della tribuna, si poteva coltivare ancora una speranza di successo indigeno. Tanto più che, al momento della competizione, per Jesse, va tutto storto, sotto lo sguardo stupito degli altri concorrenti. Ancora impressionato dalla performance di Long, così perfetto e anche tecnicamente impostato, Jesse si approccia al nastro di partenza, consapevole del disprezzo che Hitler nutre per gli uomini di colore. Nonostante gli indiscussi successi dei giorni precedenti che lo avevano visto, con scalpore, protagonista dei titoli di giornale.

Con ancora indosso la tuta, Jesse si presenta in pedana per compiere quello che lui ritiene un tentativo finalizzato a provare la rincorsa, ma con grande sorpresa, apprende che la qualificazione era già iniziata e la prova viene considerata dai giudici alla stregua di un nullo. Poichè supera l’asse di battuta all’inizio della gara.

Gli rimangono altri due tentativi. Ma Jesse è visibilmente irritato e, al secondo tentativo, stavolta in corretta tenuta di gara, incappa in un secondo nullo. Cosa questa che sta a significare che ha a disposizione una sola prova per superare il limite di qualificazione, fissato a m. 7.15. Ovvero quasi un metro in meno del suo primato mondiale, ma ben conscio che un altro errore di battuta gli avrebbe valso inevitabilmente l’eliminazione.

Diversamente da quanto avvenuto in epoche più recenti, in quell’edizione, sia le qualificazioni che la finale del salto in lungo hanno avuto luogo nella stessa giornata, al mattino le prime e, al pomeriggio, la seconda. E tutto avrebbe potuto pensare il “Cancelliere” fuorchè l'”ostacolo” alla vittoria della Germania dovesse arrivare proprio dall’interno. Ovverosia morire di fuoco amico si può!

E’ a questo punto che la storia fa il suo ingresso nella storia, il biondo ventitreenne di Lipsia, bello, aitante e spregiudicato, così perfetto da avere impressionato persino un fuoriclasse come Owens, scende in campo con il suo più che discreto inglese ” e si presenta al rivale con un secco “… il punto è un altro… qualcosa ti sta mangiando…!!!”, orgoglioso di mostrare all’avversario la sua conoscenza dello “slang” americano. E poi, altrettanto seccamente sentenzia “Saresti capace di qualificarti anche ad occhi chiusi…!!!”.

Per alcuni minuti il nero figlio di mezzadri dell’Alabama ed il biondo esempio della virilità nazista discutono fra loro fino a quando Long dà all’avversario il giusto consiglio di “staccare” prima dell’asse di battuta per non correre rischi di nullo, tanto è il “margine” che ha nelle gambe rispetto alla misura di qualificazione. Ed evitare la falcata troppo corta.

Owens annuisce, fa tesoro del consiglio e, alla sua ultima prova, “stacca” quasi mezzo metro prima dell’asse di battuta, ottenendo la misura di m. 7.46 che vuol dire accesso alla finale.

Per Luz Long, voncere l’oro sarebbe stato un gioco da ragazzi nel caso in cui il suo competitor avesse “bucato” anche il terzo tentativo! Ma, evidentemente, non avrà voluto giocare facile! O, ancora più evidentemente, qualcosa d’altro lo avrà spinto a compiere quel gesto encomiabile che ha fatto trionfare lo sport sulla follia!

E Jesse si gioca la sua ultima disperata carta!

Alle 16.30 la competizione riprende, sono rimasti solo sedici atleti a sfidarsi, come in un balletto a mezz’aria i salti si susseguono. Rimangono in sei e alle 18.00, solo in due a contendersi la medaglia d’oro, Owens e Long, sette metri e ottantasette entrambi. La folla è in visibilio. Al 7.94 di Owens, Long risponde con un nullo e così l’americano chiude con un nuovo primato olimpico ad appena sette centimetri dal suo record mondiale. Luz è il primo a congratularsi, ad abbracciarlo, dimenticandosi della tribuna d’onore, sbalorditi da una tale manifestazione di stima.

Jesse Owens, il “negro”, in una gara allo spasimo, cm. dopo cm. nei lunghi salti contro il suo leale avversario, guadagnò l’oro nel salto in lungo che, sommato a quelli dei 100 e 200 metri e a quello della staffetta, arrivano a quattro.

I giochi olimpici uniscono e Luz Long ha aiutato il suo avversario a posizionarsi nelle qualifiche del salto in lungo e a batterlo, infine, convinto com’era del valore di quell’uomo solamente compromesso dalla situazione contingente. I fotografi chiedono ai due atleti di posare uno accanto all’altro, rara testimonianza di due uomini nche sembrano divisi sotto molti aspetti. I due, che prima non si guardavano, ora incrociano gli sguardi, incosciamente consapevoli di essere gli autori della nascita di un mito, l’amicizia fra un atleta americano e uno dei campioni di Hitler. Un’amicizia che avrebbe potuto distruggere la promettente carriera di Luz.

A seguito di questo gesto, sono state scritte le più infime insinuazioni. C’è chi sostiene che Luz sia stato espulso dalla squadra e inviato durante la guerra sul fronte orientale. Invece, mentre Jesse torna un afroamericano vittima della segregazione, sfruttato come uomo da circo, Luz continua la sua carriera propagandistica a favore del Reich. Simbolo dell’atleta perfetto di razza ariana. Prende parte pure a un film sulle Olimpiadi del ’36, “Olympia”, dove però non si accenna neanche minimamente all’abbraccio fra Jesse e Luz.

A questo punto, le loro storie si separano, ormai per sempre, alimentate solo da un fitto carteggio di cui Owens racconta attorno agli anni Sessanta, un’amicizia che porterà nel cuore fino alla fine della sua vita. Forse l’unico spiraglio di luce in una vita cosparsa dalle fitte tenebre della nebbia nera. I due uomini tornano a confrontarsi con un’umanità che ben poco si rispecchia nel candore sportivo.

Jesse riceverà la medaglia della libertà soltanto nel 1976 dal presidente Gerald Ford ma all’indomani delle qualificazioni, nessun omaggio ufficiale alla Casa Bianca, nonostante la stima del presidente della “democratica” America, Franklin Delano Roosvelt che, però, per ovvi motivi, non intendeva esporsi.

Luz, intanto, conquista il suo ultimo titolo di campione della Germania nel salto in lungo del 1939 prima di ammalarsi ai reni. Una malattia che gli risparmia la chiamata alle armi alla vigilia della seconda guerra. Una volta guarito però, neanche lo sport può più proteggerlo. Nel 1943, a fronte delle sconfitte del Reich, è dichiarato idoneo a combattere. Viene mandato al fronte e, coi gradi di Sergente maggiore della Luftwaffe, l’aviazione militare tedesca -che però, da un punto di vista militare, era una normale divisione corazzata e non paracadutistica- guida una serie di azioni in Sicilia contro gli Americani. Nella divisione Hermann Goring, unità militare d’elite. Il 9 luglio 1943 gli “alleati” lanciarono l’operazione Husky, ossia lo sbarco in Sicilia, preceduto dal famoso discorso del comandante della VII Armata generale, George Patton, che, in un discorso motivazionale agli ufficiali disse, “Se si arrendono quando tu sei a due – trecento metri da loro, non badare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola, poi spara. Si fottano, nessun prigioniero”.

Contro gli Americani spara, Luz, mentre intrattiene la corrispondenza con Jesse. La sua truppa aveva il compito di difendere una pista d’atterraggio e quei soldati non erano pronti a un simile incarico. Luz ha tragicamente perso la vita durante quell’operazione, in quel reggimento dove erano stati inviati molti sportivi. In quella Sicilia che fu teatro di atroci crimini e durissimi combattimenti, come quel massacro di Biscari nel quale appunto fu ferito Luz il 10 luglio 1943, in uno scontro a fuoco. Morì quattro giorni dopo in un ospedale da campo britannico nei pressi di San Pietro Clarenza (Catania), a dispetto di tutti gli onori e le vaneglorie. Fu dichiarato disperso il 14 luglio 1943 all’età di appena trent’anni.

In una delle lettere indirizzate a Jesse, una in particolare datata 13 luglio 1943, scritta a Gela, appena dopo avere appreso la notizia di essere diventato padre, Luz scrive “il mio cuore mi dice che questa potrebbe essere l’ultima lettera che ti scrivo. Se così dovesse essere, ti chiedo questo: quando la guerra sarà finita, vai in Germania a trovare mio figlio e raccontagli che neppure la guerra è riuscita a rompere la nostra amicizia. Tuo fratello Luz”.

La lettera fu recapitata molti anni dopo, alla fine dell’estate del ’45, una mattina di settembre. Arrivava a Cleveland dopo due anni di chissà quale giro del mondo a Jesse che ignorava persino l’esistenza di Gela. Ma sapeva di quello che era successo in Sicilia. Laggiù. La guerra. La guerra mondiale. Per la quale molti soldati afroamericani erano partiti per uccidere e morire. Non si capiva bene per gli Italiani. Ma i tedeschi, sì. Loro erano i nemici, Hitler, i nazisti, coloro che avevano scatenato l’inferno. Ma Luz non lo si poteva pensare un nemico. Almeno non Jesse. E fu prorio un afroamericano a sparare a Luz.

La Sicilia è stata, per Luz, il suo tragico destino. Di morte. Jesse racconterà di questa straordinaria amicizia fino alla sua morte, avvenuta nel 1980, dirà di aver conosciuto a Berlino, la fama, gli onori, la gloria, ma soprtattutto l’amicizia di un uomo che ha avuto il coraggio di aiutarlo andando contro l’ideologia del regime del suo Paese. E, a quel patto, Jesse ha tenuto fede. Nonostante il sogno della gloria svanito.

Jesse arriva ad Amburgo alla fine dell’estate 1951. Erano passati anni, ma, alla fine, ce l’aveva fatta. Non erano stati anni facili. Ma per lui non lo erano mai stati. Tuttavia è riuscito a portare alto il nome di Luz Long nella memoria. E’ grazie a lui e alla giornalista tedesca che ne ha scoperto la tomba se il gesto eroico di Luz Long vive ancora oggi, ottantotto anni dopo l’Olympiastadion e i suoi 4 milioni di biglietti venduti. In barba al fuhrer e al suo delirio!

Owens morì, all’età di sessantasei anni, per tumore ai polmoni, è sepolto nel cimitero di Oak Woods a Chicago. Il riconoscimento tardivo del presidente Jimmy Carter arrivò post mortem, “Forse nessun atleta ha incarnato meglio la lotta umana contro la tirannia, la povertà e il fanatismo razziale”.

 

Una giornalista tedesca scoprì la tomba di Luz Long nella fossa comune 2 piastra E del cimitero militare germanico di Motta Sant’Anastasia dove fu sepolto, nel 1961, traslato dal cimitero americano di Gela. Il sacrario si trova a 8 km da Catania. Su lastre di pietra sono incisi i nomi dei soldati tedeschi dispersi in Sicilia negli anni 1941/1944.

 

 

 

 

 

E’ sepolto a Motta Sant’Anastasia Luz Long, il tedesco che, nell’Olimpiade del 1936, a Berlino, suggerì all’avversario la strategia vincente.

Nel corso di quelle che, a buon diritto, possiamo definire “le Olimpiadi della polemica” e, a distanza di qualche giorno da quel 4 agosto che, invero e contro ogni logica agonistica, rappresenta una pietra miliare dell’agone sportivo più importante di tutti i tempi, un collegamento con i Giochi Olimpici di Berlino del 1936 ci pare d’obbligo. Tanto più che la storia -duplicemente intesa- ci riguarda da vicino, più di quanto non si possa pensare. A lambire quel tratto di costa siciliana che tanto ha da dire sullo “sbarco” per eccellenza, fatto, questo, che ha segnato inequivocabilmente il destino della nostra terra.

La storia ci viene segnalata da Maurizio Messina, assiduo lettore del giornale, per democratica imposizione del destino (ndr), oltre che per libera scelta personale. Una storia che parte da lontano e unisce più e più mondi, nell’abbraccio fraterno che va oltre i confini della sfida. La Germania altezzosa di Adolf Hitler alla vigilia del 1936, il nipote di uno shiavo afroamericano, che guadagna il privilegio di partecipare alla XI Olimpiade di Berlino, e una tomba, anzi una fossa comune, che, fra gli altri, reca anche il nome di Luz Long, a Motta Sant’Anastasia, proprio a due passi da noi.

Lui, Luz Long appunto, è atleta tedesco, uno dei preferiti di Adolf Hitler e, nel fatidico 4 agosto 1936, si trova a competere nella prova del salto in lungo con Jesse Owens, giovane corridore afroamericano che, grazie al suo avversario, diventerà l’eroe di queste Olimpiadi, conquistando quattro medaglie d’oro. Due uomini, apparentemente avversari, ma che, al momento della competizione, hanno regalato al mondo un’immagine sorprendente di sportività e generosità. Dando vita ad una vera e propria leggenda che ci piace contribuire a tramandare nel tempo.

Due uomini che hanno osato sfidare il terzo Reich dimostrando che lo sport può realmente unire le persone, al di là della nazionalità e del colore della pelle. La storia di una sfida, la storia di un’amicizia consumatasi sotto gli occhi del fuhrer e dei suoi comandanti. E degli oltre 100mila spettatori dello stadio che, quel giorno, assistettero all’arrivo della fiamma olimpica. Per la prima volta nella storia delle Olimpiadi, diversi tedofori si succedettero per portare la torcia da Olimpia, luogo in cui è stata accesa, fino a Berlino. Una rievocazione inventata dalla Germania nazista e in uso ancora oggi.
Carl Ludwing Hermann Long soprannominato Luz e James Cleveland Owens, ai più noto come Jesse, non si sono mai visti prima, ma sanno che, prima o poi, dovranno affrontarsi. Hanno entrambi ventitrè anni e lo spirito dell’età che li accomuna. Ma, per il nipote di uno schiavo, nato nel Sudamerica dove raccoglie cotone dall’età di sei anni, entare in uno dei più imponenti stadi del mondo è un’incredibile rivincita. Lui, Jesse Owens, ha iniziato a correre in Alabama per provare quella sensazione di totale libertà. Libertà assoluta! E solo dopo è divenuto il mito che la storia ci ha consegnato con l’epiteto di “antilope d’ebano”. Il mito dell’atleta nordamericano capace di mandare all’aria le teorie sulla supremazia della razza bianca.

Al contrario, il suo competitor, Luz Long, proviene da una famiglia borghese, farmacisti di Lipsia. Oltre allo sport, Luz, è un bravo pianista e adorabile ballerino. Ama divertirsi e scherzare. Ottimista e amante della vita, in campagna dove cresce e pratica ogni tipo di sport. Qui, a dodici anni, costruisce la sua pista personale di salto in lungo. Poi l’incontro con l’allenatore Georg Richter farà di lui un campione. Gli piace la competizione. Per lui non sarà difficile sfondare nel mondo dello sport.

Dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, Jesse, invece, attende la svolta. Che arriva quando, con la famiglia, a nove anni, parte per l’Ohio, negli Stati Uniti settentrionali, all’epoca in pieno sviluppo industriale. Come molti altri afroamericani, la famiglia di Jesse lascia il sud per fuggire dalla miseria. Ma non alla ghettizzazione. Già al liceo Jesse incontra Charles Riley, il suo primo allenatore che, stupefatto dalle innate abilità fisiche del ragazzo, decide di dedicargli tutto il suo tempo e di insegnargli tutte le tecniche di base per sfondare in un settore in cui i nipoti degli schiavi di colore devono faticare più degli altri per dimostare di essere forti quanto i bianchi. Dove essere il migliore è importante! Ben presto diventa una leggenda nel mondo dello sport. Grazie ai campionati nazionali studenteschi del 1933 -che segnarono un punto di svolta nella sua carriera- potè essere ammesso all’Università dell’Ohio, e, grazie anche ai risparmi che il padre -a fatica- aveva messo da parte, proprio per questo. Poi, finalmente, la grande occasione. I Giochi Olimpici del 1936 che il CIO aveva assegnato a Berlino, nella sessione del 26 aprile 1931, superando la candidatura di Barcellona, scelta, a posteriori, quanto mai oculata stante il divampare, poi, della sanguiniosa “guerra civile” spagnola. Un’occasione anche per Adolf Hitler che, così, potrà dimostrare al mondo “la potenza e la grandezza” della sua Germania. Almeno nelle sue intenzioni!

 

Da New York ad Amburgo sono necessari otto giorni di viaggio. Durante la traversata Jesse annota le sue sensazioni sul viaggio, non una parola sulla segregazione presente anche a bordo. Gli afroamericani mangiano separati dalgi altri e dormono separati. Ma tutto questo fa parte della vita di Jesse da quando è nato. Lui pensa solo alla gara. E’ la prima volta che lascia gli Stati Uniti. E presto dovrà dimostrare di essere il migliore e di non inchinarsi al nazionalsocialismo. Ecco perchè è comprensibile il suo stupore di fronte all’accoglienza clamorosa del pubblico di Berlino.

Nell’estate del 1936 a Berlino regna un’atmosfera conviviale e di festa. Le bandiere con le svastiche si alternano, ad intervalli regolari, sui palazzi, ma i simboli più espliciti della politica antisemita del Reich sono vietati in città. Tutto al fine di ammaliare gli atleti e il pubblico stranieri. Uno specchietto per le allodole. Dietro il quale si nascondeva tutta un’altra Germania, una Germania dove non esistevano più oppositori politici e dove chi poteva opporre resistenza era già stato incarcerato da tempo o costretto a lasciare il paese fuggendo all’estero. E dove i campi di concentramento erano già stati creati.

I 312 membri della squadra americana vivono tutti assieme, senza distinzione di razza, in un’atmosfera piacevole, molto rilassata e informale, all’interno del villaggio olimpico, mentre Luz, ad esso, preferisce la quiete dell’albergo per potersi meglio concentrare.

A Berlino, Luz, ovviamente, è a proprio agio, nel suo ambiente, nello stadio che accoglie il suo fhurer con tutti gli onori. Un atteggiamento che incuriosisce e, allo stesso tempo, preoccupa Jesse, non proprio avvezzo alle parate se non a quelle private del duro allenamento sul campo. Intanto, le leggi antisemite e xenofobe sono state già votate. Gli Ebrei sono esclusi dai circoli sportivi. Ma Luz Long è cresciuto in una famiglia in cui lo spirito umanitario riveste un ruolo decisivo. E così sarà, nel bene e nel male, anche per la sua vita. Che lo vedrà coraggiosamente fare la sua scelta. Di campo.

In alcune lettere indirizzate alla madre, Luz scrive che la razza e il colore della pelle non avevano importanza per lui, che ogni popolo ha i suoi eroi e la sua forza. Una realtà ancora lontana per Jesse che, dall’altra parte dell’Atlantico, fatica a sopravvivere. Facendo mille lavori, anche i più umili, per aiutare la propria famiglia. Ma lo sport aiuta a spezzare le catene. E Jesse è veloce, molto veloce. Nonostante la politica segregazionista in vigore negli Stati Uniti, Jesse era stato attenzionato da diverse università. Nel 1936 a Berlino, lui, l’afroamericano, nipote di uno schiavo, è già una celebrità.

Ora, sono le 10.00 del mattino di ottantotto anni or sono, il pubblico si assembra agli ingressi dello stadio per assisstere alle qualificazioni del salto in lungo, gareggiano quarantaquattro concorrenti ma il pubblico non ha occhi che per due di loro, Luz, il nuovo detentore del record europero e Jesse, colui che ha stabilito il record mondiale. I giornalisti annunciano un acceso duello.

 

Indubbiamente fanatico, ma certamente non stupido, Hitler sa benissimo che i suoi “Jugend Athleten” non hanno alcuna possibilità di successo nelle gare di velocità pura, in cui Owens, appunto, trionfa, vincendo la sua prima medaglia d’oro nei 100 metri e divenedo il favorito del pubblico a Berlino. E questo era palese. Sicuramente una delle emozioni più grandi che un campione olimpico possa provare, trovarsi sul gradino più alto del podio e ascoltare il proprio inno nazionale.

Adolf Hitler è presente alla competizione, ma lascia lo stadio anzitempo, irritato. A differenza dei giorni precedenti in cui stringe la mano ai vincitori finlandesi, per Jesse, neanche uno sguardo.

Rimane allora solo questa, la gara del salto in lungo per tentare di infrangere il sogno americano di conquistare quattro medaglie d’oro, quello che ai collaboratori di Hitler fa dire “kein problem, mein Fhurer…!!!”, un rassicurante “nessun problema, mio Fhurer”, dettato più dal timore di contraddirlo che da un’effettiva speranza di riuscita.

Luz Long, in quella competizione, è il primo a gareggiare, il campione europeo in carica, il rappresentante della Germania, un uomo della sua epoca che, forse inconsapevolmente, fa parte di quella macchina da guerra che il terzo Reich sta approntando per addestrare i giovani e prepararli alle future battaglie. O, forse, inevitabilmente, un atleta che deve piegarsi al sistema -pena l’esclusione- di quell’ideologia nazista per la quale lo sport è un’arma. Nel tempo in cui la Germania non può ancora riarmarsi.

C’è comunque da dire che i tre lunghisti tedeschi iscritti alla gara, sono atleti di tutto rispetto, Wilhelm Leichum, Luz Long, Arthur Baumle, ragion per cui, dai piani alti della tribuna, si poteva coltivare ancora una speranza di successo indigeno. Tanto più che, al momento della competizione, per Jesse, va tutto storto, sotto lo sguardo stupito degli altri concorrenti. Ancora impressionato dalla performance di Long, così perfetto e anche tecnicamente impostato, Jesse si approccia al nastro di partenza, consapevole del disprezzo che Hitler nutre per gli uomini di colore. Nonostante gli indiscussi successi dei giorni precedenti che lo avevano visto, con scalpore, protagonista dei titoli di giornale.

Con ancora indosso la tuta, Jesse si presenta in pedana per compiere quello che lui ritiene un tentativo finalizzato a provare la rincorsa, ma con grande sorpresa, apprende che la qualificazione era già iniziata e la prova viene considerata dai giudici alla stregua di un nullo. Poichè supera l’asse di battuta all’inizio della gara.

Gli rimangono altri due tentativi. Ma Jesse è visibilmente irritato e, al secondo tentativo, stavolta in corretta tenuta di gara, incappa in un secondo nullo. Cosa questa che sta a significare che ha a disposizione una sola prova per superare il limite di qualificazione, fissato a m. 7.15. Ovvero quasi un metro in meno del suo primato mondiale, ma ben conscio che un altro errore di battuta gli avrebbe valso inevitabilmente l’eliminazione.

Diversamente da quanto avvenuto in epoche più recenti, in quell’edizione, sia le qualificazioni che la finale del salto in lungo hanno avuto luogo nella stessa giornata, al mattino le prime e, al pomeriggio, la seconda. E tutto avrebbe potuto pensare il “Cancelliere” fuorchè l'”ostacolo” alla vittoria della Germania dovesse arrivare proprio dall’interno. Ovverosia morire di fuoco amico si può!

E’ a questo punto che la storia fa il suo ingresso nella storia, il biondo ventitreenne di Lipsia, bello, aitante e spregiudicato, così perfetto da avere impressionato persino un fuoriclasse come Owens, scende in campo con il suo più che discreto inglese ” e si presenta al rivale con un secco “… il punto è un altro… qualcosa ti sta mangiando…!!!”, orgoglioso di mostrare all’avversario la sua conoscenza dello “slang” americano. E poi, altrettanto seccamente sentenzia “Saresti capace di qualificarti anche ad occhi chiusi…!!!”.

Per alcuni minuti il nero figlio di mezzadri dell’Alabama ed il biondo esempio della virilità nazista discutono fra loro fino a quando Long dà all’avversario il giusto consiglio di “staccare” prima dell’asse di battuta per non correre rischi di nullo, tanto è il “margine” che ha nelle gambe rispetto alla misura di qualificazione. Ed evitare la falcata troppo corta.

Owens annuisce, fa tesoro del consiglio e, alla sua ultima prova, “stacca” quasi mezzo metro prima dell’asse di battuta, ottenendo la misura di m. 7.46 che vuol dire accesso alla finale.

Per Luz Long, voncere l’oro sarebbe stato un gioco da ragazzi nel caso in cui il suo competitor avesse “bucato” anche il terzo tentativo! Ma, evidentemente, non avrà voluto giocare facile! O, ancora più evidentemente, qualcosa d’altro lo avrà spinto a compiere quel gesto encomiabile che ha fatto trionfare lo sport sulla follia!

E Jesse si gioca la sua ultima disperata carta!

Alle 16.30 la competizione riprende, sono rimasti solo sedici atleti a sfidarsi, come in un balletto a mezz’aria i salti si susseguono. Rimangono in sei e alle 18.00, solo in due a contendersi la medaglia d’oro, Owens e Long, sette metri e ottantasette entrambi. La folla è in visibilio. Al 7.94 di Owens, Long risponde con un nullo e così l’americano chiude con un nuovo primato olimpico ad appena sette centimetri dal suo record mondiale. Luz è il primo a congratularsi, ad abbracciarlo, dimenticandosi della tribuna d’onore, sbalorditi da una tale manifestazione di stima.

Jesse Owens, il “negro”, in una gara allo spasimo, cm. dopo cm. nei lunghi salti contro il suo leale avversario, guadagnò l’oro nel salto in lungo che, sommato a quelli dei 100 e 200 metri e a quello della staffetta, arrivano a quattro.

I giochi olimpici uniscono e Luz Long ha aiutato il suo avversario a posizionarsi nelle qualifiche del salto in lungo e a batterlo, infine, convinto com’era del valore di quell’uomo solamente compromesso dalla situazione contingente. I fotografi chiedono ai due atleti di posare uno accanto all’altro, rara testimonianza di due uomini nche sembrano divisi sotto molti aspetti. I due, che prima non si guardavano, ora incrociano gli sguardi, incosciamente consapevoli di essere gli autori della nascita di un mito, l’amicizia fra un atleta americano e uno dei campioni di Hitler. Un’amicizia che avrebbe potuto distruggere la promettente carriera di Luz.

A seguito di questo gesto, sono state scritte le più infime insinuazioni. C’è chi sostiene che Luz sia stato espulso dalla squadra e inviato durante la guerra sul fronte orientale. Invece, mentre Jesse torna un afroamericano vittima della segregazione, sfruttato come uomo da circo, Luz continua la sua carriera propagandistica a favore del Reich. Simbolo dell’atleta perfetto di razza ariana. Prende parte pure a un film sulle Olimpiadi del ’36, “Olympia”, dove però non si accenna neanche minimamente all’abbraccio fra Jesse e Luz.

A questo punto, le loro storie si separano, ormai per sempre, alimentate solo da un fitto carteggio di cui Owens racconta attorno agli anni Sessanta, un’amicizia che porterà nel cuore fino alla fine della sua vita. Forse l’unico spiraglio di luce in una vita cosparsa dalle fitte tenebre della nebbia nera. I due uomini tornano a confrontarsi con un’umanità che ben poco si rispecchia nel candore sportivo.

Jesse riceverà la medaglia della libertà soltanto nel 1976 dal presidente Gerald Ford ma all’indomani delle qualificazioni, nessun omaggio ufficiale alla Casa Bianca, nonostante la stima del presidente della “democratica” America, Franklin Delano Roosvelt che, però, per ovvi motivi, non intendeva esporsi.

Luz, intanto, conquista il suo ultimo titolo di campione della Germania nel salto in lungo del 1939 prima di ammalarsi ai reni. Una malattia che gli risparmia la chiamata alle armi alla vigilia della seconda guerra. Una volta guarito però, neanche lo sport può più proteggerlo. Nel 1943, a fronte delle sconfitte del Reich, è dichiarato idoneo a combattere. Viene mandato al fronte e, coi gradi di Sergente maggiore della Luftwaffe, l’aviazione militare tedesca -che però, da un punto di vista militare, era una normale divisione corazzata e non paracadutistica- guida una serie di azioni in Sicilia contro gli Americani. Nella divisione Hermann Goring, unità militare d’elite. Il 9 luglio 1943 gli “alleati” lanciarono l’operazione Husky, ossia lo sbarco in Sicilia, preceduto dal famoso discorso del comandante della VII Armata generale, George Patton, che, in un discorso motivazionale agli ufficiali disse, “Se si arrendono quando tu sei a due – trecento metri da loro, non badare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola, poi spara. Si fottano, nessun prigioniero”.

Contro gli Americani spara, Luz, mentre intrattiene la corrispondenza con Jesse. La sua truppa aveva il compito di difendere una pista d’atterraggio e quei soldati non erano pronti a un simile incarico. Luz ha tragicamente perso la vita durante quell’operazione, in quel reggimento dove erano stati inviati molti sportivi. In quella Sicilia che fu teatro di atroci crimini e durissimi combattimenti, come quel massacro di Biscari nel quale appunto fu ferito Luz il 10 luglio 1943, in uno scontro a fuoco. Morì quattro giorni dopo in un ospedale da campo britannico nei pressi di San Pietro Clarenza (Catania), a dispetto di tutti gli onori e le vaneglorie. Fu dichiarato disperso il 14 luglio 1943 all’età di appena trent’anni.

In una delle lettere indirizzate a Jesse, una in particolare datata 13 luglio 1943, scritta a Gela, appena dopo avere appreso la notizia di essere diventato padre, Luz scrive “il mio cuore mi dice che questa potrebbe essere l’ultima lettera che ti scrivo. Se così dovesse essere, ti chiedo questo: quando la guerra sarà finita, vai in Germania a trovare mio figlio e raccontagli che neppure la guerra è riuscita a rompere la nostra amicizia. Tuo fratello Luz”.

La lettera fu recapitata molti anni dopo, alla fine dell’estate del ’45, una mattina di settembre. Arrivava a Cleveland dopo due anni di chissà quale giro del mondo a Jesse che ignorava persino l’esistenza di Gela. Ma sapeva di quello che era successo in Sicilia. Laggiù. La guerra. La guerra mondiale. Per la quale molti soldati afroamericani erano partiti per uccidere e morire. Non si capiva bene per gli Italiani. Ma i tedeschi, sì. Loro erano i nemici, Hitler, i nazisti, coloro che avevano scatenato l’inferno. Ma Luz non lo si poteva pensare un nemico. Almeno non Jesse. E fu prorio un afroamericano a sparare a Luz.

La Sicilia è stata, per Luz, il suo tragico destino. Di morte. Jesse racconterà di questa straordinaria amicizia fino alla sua morte, avvenuta nel 1980, dirà di aver conosciuto a Berlino, la fama, gli onori, la gloria, ma soprtattutto l’amicizia di un uomo che ha avuto il coraggio di aiutarlo andando contro l’ideologia del regime del suo Paese. E, a quel patto, Jesse ha tenuto fede. Nonostante il sogno della gloria svanito.

Jesse arriva ad Amburgo alla fine dell’estate 1951. Erano passati anni, ma, alla fine, ce l’aveva fatta. Non erano stati anni facili. Ma per lui non lo erano mai stati. Tuttavia è riuscito a portare alto il nome di Luz Long nella memoria. E’ grazie a lui e alla giornalista tedesca che ne ha scoperto la tomba se il gesto eroico di Luz Long vive ancora oggi, ottantotto anni dopo l’Olympiastadion e i suoi 4 milioni di biglietti venduti. In barba al fuhrer e al suo delirio!

Owens morì, all’età di sessantasei anni, per tumore ai polmoni, è sepolto nel cimitero di Oak Woods a Chicago. Il riconoscimento tardivo del presidente Jimmy Carter arrivò post mortem, “Forse nessun atleta ha incarnato meglio la lotta umana contro la tirannia, la povertà e il fanatismo razziale”.

 

Una giornalista tedesca scoprì la tomba di Luz Long nella fossa comune 2 piastra E del cimitero militare germanico di Motta Sant’Anastasia dove fu sepolto, nel 1961, traslato dal cimitero americano di Gela. Il sacrario si trova a 8 km da Catania. Su lastre di pietra sono incisi i nomi dei soldati tedeschi dispersi in Sicilia negli anni 1941/1944.

 

 

 

 

E’ sepolto a Motta Sant’Anastasia Luz Long, il tedesco che, nell’Olimpiade del 1936, a Berlino, suggerì all’avversario la strategia vincente.

Nel corso di quelle che, a buon diritto, possiamo definire “le Olimpiadi della polemica” e, a distanza di qualche giorno da quel 4 agosto che, invero e contro ogni logica agonistica, rappresenta una pietra miliare dell’agone sportivo più importante di tutti i tempi, un collegamento con i Giochi Olimpici di Berlino del 1936 ci pare d’obbligo. Tanto più che la storia -duplicemente intesa- ci riguarda da vicino, più di quanto non si possa pensare. A lambire quel tratto di costa siciliana che tanto ha da dire sullo “sbarco” per eccellenza, fatto, questo, che ha segnato inequivocabilmente il destino della nostra terra.

La storia ci viene segnalata da Maurizio Messina, assiduo lettore del giornale, per democratica imposizione del destino (ndr), oltre che per libera scelta personale. Una storia che parte da lontano e unisce più e più mondi, nell’abbraccio fraterno che va oltre i confini della sfida. La Germania altezzosa di Adolf Hitler alla vigilia del 1936, il nipote di uno shiavo afroamericano, che guadagna il privilegio di partecipare alla XI Olimpiade di Berlino, e una tomba, anzi una fossa comune, che, fra gli altri, reca anche il nome di Luz Long, a Motta Sant’Anastasia, proprio a due passi da noi.

Lui, Luz Long appunto, è atleta tedesco, uno dei preferiti di Adolf Hitler e, nel fatidico 4 agosto 1936, si trova a competere nella prova del salto in lungo con Jesse Owens, giovane corridore afroamericano che, grazie al suo avversario, diventerà l’eroe di queste Olimpiadi, conquistando quattro medaglie d’oro. Due uomini, apparentemente avversari, ma che, al momento della competizione, hanno regalato al mondo un’immagine sorprendente di sportività e generosità. Dando vita ad una vera e propria leggenda che ci piace contribuire a tramandare nel tempo.

Due uomini che hanno osato sfidare il terzo Reich dimostrando che lo sport può realmente unire le persone, al di là della nazionalità e del colore della pelle. La storia di una sfida, la storia di un’amicizia consumatasi sotto gli occhi del fuhrer e dei suoi comandanti. E degli oltre 100mila spettatori dello stadio che, quel giorno, assistettero all’arrivo della fiamma olimpica. Per la prima volta nella storia delle Olimpiadi, diversi tedofori si succedettero per portare la torcia da Olimpia, luogo in cui è stata accesa, fino a Berlino. Una rievocazione inventata dalla Germania nazista e in uso ancora oggi.
Carl Ludwing Hermann Long soprannominato Luz e James Cleveland Owens, ai più noto come Jesse, non si sono mai visti prima, ma sanno che, prima o poi, dovranno affrontarsi. Hanno entrambi ventitrè anni e lo spirito dell’età che li accomuna. Ma, per il nipote di uno schiavo, nato nel Sudamerica dove raccoglie cotone dall’età di sei anni, entare in uno dei più imponenti stadi del mondo è un’incredibile rivincita. Lui, Jesse Owens, ha iniziato a correre in Alabama per provare quella sensazione di totale libertà. Libertà assoluta! E solo dopo è divenuto il mito che la storia ci ha consegnato con l’epiteto di “antilope d’ebano”. Il mito dell’atleta nordamericano capace di mandare all’aria le teorie sulla supremazia della razza bianca.

Al contrario, il suo competitor, Luz Long, proviene da una famiglia borghese, farmacisti di Lipsia. Oltre allo sport, Luz, è un bravo pianista e adorabile ballerino. Ama divertirsi e scherzare. Ottimista e amante della vita, in campagna dove cresce e pratica ogni tipo di sport. Qui, a dodici anni, costruisce la sua pista personale di salto in lungo. Poi l’incontro con l’allenatore Georg Richter farà di lui un campione. Gli piace la competizione. Per lui non sarà difficile sfondare nel mondo dello sport.

Dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, Jesse, invece, attende la svolta. Che arriva quando, con la famiglia, a nove anni, parte per l’Ohio, negli Stati Uniti settentrionali, all’epoca in pieno sviluppo industriale. Come molti altri afroamericani, la famiglia di Jesse lascia il sud per fuggire dalla miseria. Ma non alla ghettizzazione. Già al liceo Jesse incontra Charles Riley, il suo primo allenatore che, stupefatto dalle innate abilità fisiche del ragazzo, decide di dedicargli tutto il suo tempo e di insegnargli tutte le tecniche di base per sfondare in un settore in cui i nipoti degli schiavi di colore devono faticare più degli altri per dimostare di essere forti quanto i bianchi. Dove essere il migliore è importante! Ben presto diventa una leggenda nel mondo dello sport. Grazie ai campionati nazionali studenteschi del 1933 -che segnarono un punto di svolta nella sua carriera- potè essere ammesso all’Università dell’Ohio, e, grazie anche ai risparmi che il padre -a fatica- aveva messo da parte, proprio per questo. Poi, finalmente, la grande occasione. I Giochi Olimpici del 1936 che il CIO aveva assegnato a Berlino, nella sessione del 26 aprile 1931, superando la candidatura di Barcellona, scelta, a posteriori, quanto mai oculata stante il divampare, poi, della sanguiniosa “guerra civile” spagnola. Un’occasione anche per Adolf Hitler che, così, potrà dimostrare al mondo “la potenza e la grandezza” della sua Germania. Almeno nelle sue intenzioni!

 

Da New York ad Amburgo sono necessari otto giorni di viaggio. Durante la traversata Jesse annota le sue sensazioni sul viaggio, non una parola sulla segregazione presente anche a bordo. Gli afroamericani mangiano separati dalgi altri e dormono separati. Ma tutto questo fa parte della vita di Jesse da quando è nato. Lui pensa solo alla gara. E’ la prima volta che lascia gli Stati Uniti. E presto dovrà dimostrare di essere il migliore e di non inchinarsi al nazionalsocialismo. Ecco perchè è comprensibile il suo stupore di fronte all’accoglienza clamorosa del pubblico di Berlino.

Nell’estate del 1936 a Berlino regna un’atmosfera conviviale e di festa. Le bandiere con le svastiche si alternano, ad intervalli regolari, sui palazzi, ma i simboli più espliciti della politica antisemita del Reich sono vietati in città. Tutto al fine di ammaliare gli atleti e il pubblico stranieri. Uno specchietto per le allodole. Dietro il quale si nascondeva tutta un’altra Germania, una Germania dove non esistevano più oppositori politici e dove chi poteva opporre resistenza era già stato incarcerato da tempo o costretto a lasciare il paese fuggendo all’estero. E dove i campi di concentramento erano già stati creati.

I 312 membri della squadra americana vivono tutti assieme, senza distinzione di razza, in un’atmosfera piacevole, molto rilassata e informale, all’interno del villaggio olimpico, mentre Luz, ad esso, preferisce la quiete dell’albergo per potersi meglio concentrare.

A Berlino, Luz, ovviamente, è a proprio agio, nel suo ambiente, nello stadio che accoglie il suo fhurer con tutti gli onori. Un atteggiamento che incuriosisce e, allo stesso tempo, preoccupa Jesse, non proprio avvezzo alle parate se non a quelle private del duro allenamento sul campo. Intanto, le leggi antisemite e xenofobe sono state già votate. Gli Ebrei sono esclusi dai circoli sportivi. Ma Luz Long è cresciuto in una famiglia in cui lo spirito umanitario riveste un ruolo decisivo. E così sarà, nel bene e nel male, anche per la sua vita. Che lo vedrà coraggiosamente fare la sua scelta. Di campo.

In alcune lettere indirizzate alla madre, Luz scrive che la razza e il colore della pelle non avevano importanza per lui, che ogni popolo ha i suoi eroi e la sua forza. Una realtà ancora lontana per Jesse che, dall’altra parte dell’Atlantico, fatica a sopravvivere. Facendo mille lavori, anche i più umili, per aiutare la propria famiglia. Ma lo sport aiuta a spezzare le catene. E Jesse è veloce, molto veloce. Nonostante la politica segregazionista in vigore negli Stati Uniti, Jesse era stato attenzionato da diverse università. Nel 1936 a Berlino, lui, l’afroamericano, nipote di uno schiavo, è già una celebrità.

Ora, sono le 10.00 del mattino di ottantotto anni or sono, il pubblico si assembra agli ingressi dello stadio per assisstere alle qualificazioni del salto in lungo, gareggiano quarantaquattro concorrenti ma il pubblico non ha occhi che per due di loro, Luz, il nuovo detentore del record europero e Jesse, colui che ha stabilito il record mondiale. I giornalisti annunciano un acceso duello.

 

Indubbiamente fanatico, ma certamente non stupido, Hitler sa benissimo che i suoi “Jugend Athleten” non hanno alcuna possibilità di successo nelle gare di velocità pura, in cui Owens, appunto, trionfa, vincendo la sua prima medaglia d’oro nei 100 metri e divenedo il favorito del pubblico a Berlino. E questo era palese. Sicuramente una delle emozioni più grandi che un campione olimpico possa provare, trovarsi sul gradino più alto del podio e ascoltare il proprio inno nazionale.

Adolf Hitler è presente alla competizione, ma lascia lo stadio anzitempo, irritato. A differenza dei giorni precedenti in cui stringe la mano ai vincitori finlandesi, per Jesse, neanche uno sguardo.

Rimane allora solo questa, la gara del salto in lungo per tentare di infrangere il sogno americano di conquistare quattro medaglie d’oro, quello che ai collaboratori di Hitler fa dire “kein problem, mein Fhurer…!!!”, un rassicurante “nessun problema, mio Fhurer”, dettato più dal timore di contraddirlo che da un’effettiva speranza di riuscita.

Luz Long, in quella competizione, è il primo a gareggiare, il campione europeo in carica, il rappresentante della Germania, un uomo della sua epoca che, forse inconsapevolmente, fa parte di quella macchina da guerra che il terzo Reich sta approntando per addestrare i giovani e prepararli alle future battaglie. O, forse, inevitabilmente, un atleta che deve piegarsi al sistema -pena l’esclusione- di quell’ideologia nazista per la quale lo sport è un’arma. Nel tempo in cui la Germania non può ancora riarmarsi.

C’è comunque da dire che i tre lunghisti tedeschi iscritti alla gara, sono atleti di tutto rispetto, Wilhelm Leichum, Luz Long, Arthur Baumle, ragion per cui, dai piani alti della tribuna, si poteva coltivare ancora una speranza di successo indigeno. Tanto più che, al momento della competizione, per Jesse, va tutto storto, sotto lo sguardo stupito degli altri concorrenti. Ancora impressionato dalla performance di Long, così perfetto e anche tecnicamente impostato, Jesse si approccia al nastro di partenza, consapevole del disprezzo che Hitler nutre per gli uomini di colore. Nonostante gli indiscussi successi dei giorni precedenti che lo avevano visto, con scalpore, protagonista dei titoli di giornale.

Con ancora indosso la tuta, Jesse si presenta in pedana per compiere quello che lui ritiene un tentativo finalizzato a provare la rincorsa, ma con grande sorpresa, apprende che la qualificazione era già iniziata e la prova viene considerata dai giudici alla stregua di un nullo. Poichè supera l’asse di battuta all’inizio della gara.

Gli rimangono altri due tentativi. Ma Jesse è visibilmente irritato e, al secondo tentativo, stavolta in corretta tenuta di gara, incappa in un secondo nullo. Cosa questa che sta a significare che ha a disposizione una sola prova per superare il limite di qualificazione, fissato a m. 7.15. Ovvero quasi un metro in meno del suo primato mondiale, ma ben conscio che un altro errore di battuta gli avrebbe valso inevitabilmente l’eliminazione.

Diversamente da quanto avvenuto in epoche più recenti, in quell’edizione, sia le qualificazioni che la finale del salto in lungo hanno avuto luogo nella stessa giornata, al mattino le prime e, al pomeriggio, la seconda. E tutto avrebbe potuto pensare il “Cancelliere” fuorchè l'”ostacolo” alla vittoria della Germania dovesse arrivare proprio dall’interno. Ovverosia morire di fuoco amico si può!

E’ a questo punto che la storia fa il suo ingresso nella storia, il biondo ventitreenne di Lipsia, bello, aitante e spregiudicato, così perfetto da avere impressionato persino un fuoriclasse come Owens, scende in campo con il suo più che discreto inglese ” e si presenta al rivale con un secco “… il punto è un altro… qualcosa ti sta mangiando…!!!”, orgoglioso di mostrare all’avversario la sua conoscenza dello “slang” americano. E poi, altrettanto seccamente sentenzia “Saresti capace di qualificarti anche ad occhi chiusi…!!!”.

Per alcuni minuti il nero figlio di mezzadri dell’Alabama ed il biondo esempio della virilità nazista discutono fra loro fino a quando Long dà all’avversario il giusto consiglio di “staccare” prima dell’asse di battuta per non correre rischi di nullo, tanto è il “margine” che ha nelle gambe rispetto alla misura di qualificazione. Ed evitare la falcata troppo corta.

Owens annuisce, fa tesoro del consiglio e, alla sua ultima prova, “stacca” quasi mezzo metro prima dell’asse di battuta, ottenendo la misura di m. 7.46 che vuol dire accesso alla finale.

Per Luz Long, voncere l’oro sarebbe stato un gioco da ragazzi nel caso in cui il suo competitor avesse “bucato” anche il terzo tentativo! Ma, evidentemente, non avrà voluto giocare facile! O, ancora più evidentemente, qualcosa d’altro lo avrà spinto a compiere quel gesto encomiabile che ha fatto trionfare lo sport sulla follia!

E Jesse si gioca la sua ultima disperata carta!

Alle 16.30 la competizione riprende, sono rimasti solo sedici atleti a sfidarsi, come in un balletto a mezz’aria i salti si susseguono. Rimangono in sei e alle 18.00, solo in due a contendersi la medaglia d’oro, Owens e Long, sette metri e ottantasette entrambi. La folla è in visibilio. Al 7.94 di Owens, Long risponde con un nullo e così l’americano chiude con un nuovo primato olimpico ad appena sette centimetri dal suo record mondiale. Luz è il primo a congratularsi, ad abbracciarlo, dimenticandosi della tribuna d’onore, sbalorditi da una tale manifestazione di stima.

Jesse Owens, il “negro”, in una gara allo spasimo, cm. dopo cm. nei lunghi salti contro il suo leale avversario, guadagnò l’oro nel salto in lungo che, sommato a quelli dei 100 e 200 metri e a quello della staffetta, arrivano a quattro.

I giochi olimpici uniscono e Luz Long ha aiutato il suo avversario a posizionarsi nelle qualifiche del salto in lungo e a batterlo, infine, convinto com’era del valore di quell’uomo solamente compromesso dalla situazione contingente. I fotografi chiedono ai due atleti di posare uno accanto all’altro, rara testimonianza di due uomini nche sembrano divisi sotto molti aspetti. I due, che prima non si guardavano, ora incrociano gli sguardi, incosciamente consapevoli di essere gli autori della nascita di un mito, l’amicizia fra un atleta americano e uno dei campioni di Hitler. Un’amicizia che avrebbe potuto distruggere la promettente carriera di Luz.

A seguito di questo gesto, sono state scritte le più infime insinuazioni. C’è chi sostiene che Luz sia stato espulso dalla squadra e inviato durante la guerra sul fronte orientale. Invece, mentre Jesse torna un afroamericano vittima della segregazione, sfruttato come uomo da circo, Luz continua la sua carriera propagandistica a favore del Reich. Simbolo dell’atleta perfetto di razza ariana. Prende parte pure a un film sulle Olimpiadi del ’36, “Olympia”, dove però non si accenna neanche minimamente all’abbraccio fra Jesse e Luz.

A questo punto, le loro storie si separano, ormai per sempre, alimentate solo da un fitto carteggio di cui Owens racconta attorno agli anni Sessanta, un’amicizia che porterà nel cuore fino alla fine della sua vita. Forse l’unico spiraglio di luce in una vita cosparsa dalle fitte tenebre della nebbia nera. I due uomini tornano a confrontarsi con un’umanità che ben poco si rispecchia nel candore sportivo.

Jesse riceverà la medaglia della libertà soltanto nel 1976 dal presidente Gerald Ford ma all’indomani delle qualificazioni, nessun omaggio ufficiale alla Casa Bianca, nonostante la stima del presidente della “democratica” America, Franklin Delano Roosvelt che, però, per ovvi motivi, non intendeva esporsi.

Luz, intanto, conquista il suo ultimo titolo di campione della Germania nel salto in lungo del 1939 prima di ammalarsi ai reni. Una malattia che gli risparmia la chiamata alle armi alla vigilia della seconda guerra. Una volta guarito però, neanche lo sport può più proteggerlo. Nel 1943, a fronte delle sconfitte del Reich, è dichiarato idoneo a combattere. Viene mandato al fronte e, coi gradi di Sergente maggiore della Luftwaffe, l’aviazione militare tedesca -che però, da un punto di vista militare, era una normale divisione corazzata e non paracadutistica- guida una serie di azioni in Sicilia contro gli Americani. Nella divisione Hermann Goring, unità militare d’elite. Il 9 luglio 1943 gli “alleati” lanciarono l’operazione Husky, ossia lo sbarco in Sicilia, preceduto dal famoso discorso del comandante della VII Armata generale, George Patton, che, in un discorso motivazionale agli ufficiali disse, “Se si arrendono quando tu sei a due – trecento metri da loro, non badare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola, poi spara. Si fottano, nessun prigioniero”.

Contro gli Americani spara, Luz, mentre intrattiene la corrispondenza con Jesse. La sua truppa aveva il compito di difendere una pista d’atterraggio e quei soldati non erano pronti a un simile incarico. Luz ha tragicamente perso la vita durante quell’operazione, in quel reggimento dove erano stati inviati molti sportivi. In quella Sicilia che fu teatro di atroci crimini e durissimi combattimenti, come quel massacro di Biscari nel quale appunto fu ferito Luz il 10 luglio 1943, in uno scontro a fuoco. Morì quattro giorni dopo in un ospedale da campo britannico nei pressi di San Pietro Clarenza (Catania), a dispetto di tutti gli onori e le vaneglorie. Fu dichiarato disperso il 14 luglio 1943 all’età di appena trent’anni.

In una delle lettere indirizzate a Jesse, una in particolare datata 13 luglio 1943, scritta a Gela, appena dopo avere appreso la notizia di essere diventato padre, Luz scrive “il mio cuore mi dice che questa potrebbe essere l’ultima lettera che ti scrivo. Se così dovesse essere, ti chiedo questo: quando la guerra sarà finita, vai in Germania a trovare mio figlio e raccontagli che neppure la guerra è riuscita a rompere la nostra amicizia. Tuo fratello Luz”.

La lettera fu recapitata molti anni dopo, alla fine dell’estate del ’45, una mattina di settembre. Arrivava a Cleveland dopo due anni di chissà quale giro del mondo a Jesse che ignorava persino l’esistenza di Gela. Ma sapeva di quello che era successo in Sicilia. Laggiù. La guerra. La guerra mondiale. Per la quale molti soldati afroamericani erano partiti per uccidere e morire. Non si capiva bene per gli Italiani. Ma i tedeschi, sì. Loro erano i nemici, Hitler, i nazisti, coloro che avevano scatenato l’inferno. Ma Luz non lo si poteva pensare un nemico. Almeno non Jesse. E fu prorio un afroamericano a sparare a Luz.

La Sicilia è stata, per Luz, il suo tragico destino. Di morte. Jesse racconterà di questa straordinaria amicizia fino alla sua morte, avvenuta nel 1980, dirà di aver conosciuto a Berlino, la fama, gli onori, la gloria, ma soprtattutto l’amicizia di un uomo che ha avuto il coraggio di aiutarlo andando contro l’ideologia del regime del suo Paese. E, a quel patto, Jesse ha tenuto fede. Nonostante il sogno della gloria svanito.

Jesse arriva ad Amburgo alla fine dell’estate 1951. Erano passati anni, ma, alla fine, ce l’aveva fatta. Non erano stati anni facili. Ma per lui non lo erano mai stati. Tuttavia è riuscito a portare alto il nome di Luz Long nella memoria. E’ grazie a lui e alla giornalista tedesca che ne ha scoperto la tomba se il gesto eroico di Luz Long vive ancora oggi, ottantotto anni dopo l’Olympiastadion e i suoi 4 milioni di biglietti venduti. In barba al fuhrer e al suo delirio!

Owens morì, all’età di sessantasei anni, per tumore ai polmoni, è sepolto nel cimitero di Oak Woods a Chicago. Il riconoscimento tardivo del presidente Jimmy Carter arrivò post mortem, “Forse nessun atleta ha incarnato meglio la lotta umana contro la tirannia, la povertà e il fanatismo razziale”.

 

Una giornalista tedesca scoprì la tomba di Luz Long nella fossa comune 2 piastra E del cimitero militare germanico di Motta Sant’Anastasia dove fu sepolto, nel 1961, traslato dal cimitero americano di Gela. Il sacrario si trova a 8 km da Catania. Su lastre di pietra sono incisi i nomi dei soldati tedeschi dispersi in Sicilia negli anni 1941/1944.

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