Mussomeli – Prima relazione di aiuto e poi tecnici di patologie. Questo dovrebbero essere i medici. E nel caso della dottoressa Marzia Corbetto, le due cose assieme le hanno permesso di salvare la vita a C. G., la paziente 65enne intossicata da una zuppa di carciofi. La stessa che invece era costata la vita alla mamma 90enne. Il fatto è accaduto al “Sant’Eugenio” di Roma dove la dottoressa Corbetto, 41 anni e mussomelese d’origine, svolge la sua professione di neurologa, dopo avere studiato Medicina al Campus Biomedico della capitale, dove si era già distinta per le sue spiccate qualità umane. “La donna si stava spegnendo sotto i nostri occhi, senza più conoscenza, con il volto paralizzato, la respirazione ansimante, incapace di deglutire e tenere gli occhi aperti. Eravamo disperati, quando, a un tratto, prima è sopraggiunto il sospetto, poi l’illuminazione”. Queste le parole, che non nascondono la viva emozione della dottoressa Corbetto, all’indomani dell’eroica intuizione che già ha avuto una risonanza mediatica enorme. La notizia, riportata prima da un noto quotidiano nazionale, ieri è tornata, sul set de “La Vita in diretta” dove, dal piccolo schermo, la brillante dottoressa del Sud dei santi ha emozionato l’Italia. Con la sua accorata testimonianza, umana ancorchè professionale. Del resto non poteva essere diversamente, essendo stata educata in un contesto familiare d’eccellenza, figlia del ragioniere Pino, bancario di lungo corso, e della professoressa Gesua Di Francesco, suterese dall’indole affabile e amorevole. “Può essere stato il botulino”, è stata la folgorazione che ha permesso di salvare una vita a fronte di un’altra andatasene inesorabilmente, quasi per quell’incomprensibile gioco di pesi e contrappesi che è la vita. Da quel momento è stata solo una serrata corsa contro il tempo, per fare arrivare in ospedale il siero contro il batterio killer che, nell’immaginario collettivo, è sinonimo di giovinezza ad oltranza. Dimenticando, come spesso avviene, che invece di botulino si muore. Il calvario della paziente salvata era iniziato il 16 settembre scorso, quando è stata ricoverata, in fin di vita, al Pronto Soccorso dell’ospedale. E, dallo stesso, dimessa solo qualche giorno fa, dopo settimane di Rianimazione. La diagnosi, “per fortuna” tempestiva è stata alquanto travagliata, dal momento che, quando nella dottoressa Corbetto, si era instilllato il tarlo benefico del sospetto, la paziente stava per perdere completamente la voce e quindi “non c’era stata una risposta chiara alla domanda sul cibo ingerito nei giorni precedenti dalla paziente”. Per caso, per fortuna, per intuizione o per genialità, tuttavia si è riusciti a strappare dalla paralisi muscolare che, da lì a poco, sarebbe sopravvenuta, la sfortunata paziente, ancora incredula che qualche cucchiaio di zuppa potesse traghettare così rapidamente all’altro mondo. “Un cibo assassino” smascherato dagli studi che la dottoressa Corbetto, per un interesse tutto personale, aveva recentemente condotto proprio sul cibo in scatola. E qui ci pare veramente improbabile pensare che non ci sia lo zampino del destino. Lo stesso che ha permesso al team del “Sant’Eugenio” di intestarsi una vittoria tutta rosa. Cinque donne, la neurologa, l’anestesista, l’otorinolaringoiatra, le professioniste di turno in Sala rossa che, congiuntamente al Centro antiveleni di Pavia e dell’Istituto suoeriore di Sanità, ancora una volta, hanno permesso di scrivere una bella pagina di buona sanità, ma anche una nota di solidarietà delle donne per le donne. A prescindere!