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La statua di Santa Margherita “salvata” dall’incuria grazie all’intervento di padre Achille Lo Manto

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Mussomeli – Forse non è stata ancora apposta la parola “fine”, ma una tregua sicuramente è stata concessa, alla lunga e travagliata diaspora della statua di Santa Margherita. Un antichissimo gioiello di arte sacra locale che invero non ha goduto di sorte migliore di quella della chiesa per la quale è pur stata concepita e realizzata. Nell’ormai lontanissimo 1500. Le due Santa Margherita, la chiesa e la statua, una chiusa per inagibilità e l’altra depositata, spezzata, per tanti anni, nell’altrettanto inagibile cripta della chiesa Madre del paese delle confraternite. Ci è voluta la “mano santa” del parroco, l’arciprete don Achille Lo Manto, che, con atto di coraggio e responsabilità, ha deciso di prendersi cura della scultura in alabastro del XVI sec., destinandola ad una più degna e dignotosa sede. La cappella di San Giuseppe, all’interno della Chiesa Madre, appunto, da qualche giorno ospita la santa coronata di Antiochia, inizialmente posizionata sopra il portone della facciata della chiesa di Santa Margherita e poi, trasferita all’interno, per evitarne il deterioramento dovuto agli agenti atmosferici. E, mentre ancora gli storiografi siciliani e locali, si dividono nell’attribuire la primigenie alla chiesa Madre piuttosto che a Santa Margherita, tutti, “santi e profani”, concordano nel decadimento totale di quella che fu la sede della Compagnia dei Verdi e che vanta pregevoli stucchi -o resti di stucchi, ad onor del vero!- di chiara influenza e derivazione da modelli e prototipi di scuola serpottiana che, in quel periodo, segnavano la fioritura della decorazione a stucco. Ad opera di ignoti stuccatori che nascevano come maestranze isolane. A suggello dell’ipotesi che la vorrebbe la più antica, la data a rilievo riportata sulla preesistente campana bronzea che registra l’anno 1336, ne sarebbe la prova inconfutabile. Anche questa, tuttavia, storia non poco tribolata e parecchio roccambolesca custodita nei meandri di quel dedalo di viuzze del quartiere detto della “Terravecchia”.
Il 1 dicembre 1958 la ditta Mingoia esegue la demolizione del campanile della chiesa per ordine del Genio Civile di Caltanissetta. Lo dobbiamo all’opera meritoria del sig Salvatore Mingoia Gervasi se oggi il campanile lo ritroviamo ricostruito grazie ai pezzi ad intaglio che egli stesso ebbe cura di numerare e conservare. Per la ricostruzione che poi, di fatto, avvenne negli anni 1981/1982.

Un nome, tuttavia, figura nei libri contabili della Compagnia dei Verdi, fra le spese documentate, un certo mastro Morello, stuccatore, che riceve un pagamento, nell’agosto del 1739, per la realizzazione del cornicione della chiesa. La quale, peraltro, è stata interessata da vari restauri nell’arco della sua storia. Ultimo, in ordine di tempo, quello degli anni 1981/1982, finanziato dall’Assessorato Regionale ai Beni Culturali, con il rifacimento di una parte della volta e la ricostruzione, in anastilosi, del campanile di cui sopra. Fra le “quasi macerie” il prospetto della cantoria -littirinu- eseguito da Mastro Agostino Lodato nel 1741 e l’organo a canne, letterarmente distrutto, costruito nel 1740 dall’organaro palermitano Michelangelo Andronici. Ecco, al punto in cui ci troviamo, si comprende bene, anche per i non addetti ai lavori, che la statuina, sulla quale, tuttavia, il Sorge non si espresse molto favorevolmente, non poteva, continuando lungo questa poco retta via, che aggiungersi alla già lunga schiera dei beni perduti. Per indolenza e noncuranza. E, ci teniamo a precisarlo, ne abbiamo solo accennato. Ma la lista è ben più lunga. Un trionfo di motivi floreali, conchiglie e puttini doveva essere la scena sacra della chiesa, dall’alta valenza simbolica, ai tempi del suo massimo splendore. Al centro del portale dell’altare maggiore poi quel motivo lezioso caratterizza una cartella barocca dove è dipinta la scritta “Floruit cum lilijs”, ovverosia “fiorita come un giglio”. La scritta ovviamente si riferisce a Santa Margherita. Cosa possa accomunare il culto per la santa di Antiochia a quella Margherita Passaneto che il caro Manfredi III di Chiaramonte sposò, atti alla mano, nel 1348, invero non ci è dato sapere. Anche perchè, come informano le fonti storiche locali, gli archivi dei Chiaramonte sono stati distrutti, con ogni probabilità, da fuoco amico. E per ovvie ragioni. E comunque, tornando a quella che lo storico mussomelese Calogero Barba ebbe a definire “una delle più importanti testimonianze d’arte plastica di Mussomeli e della Diocesi di Caltanissetta”, con certezza sappiamo che la pregevole scultura, di cm. 163 x 35 x 65, di autore ignoto, dopo un intervento di restauro, nel 1910, fu collocata nella nicchia esterna sopra il portale della facciata e sistemata con una protezione in vetro e ferro stile Liberty. Da qui fu rimossa a seguito di un ulteriore restauro della chiesa degli anni ’20 e poi ancora, prima del restauro degli anni ’80. Conservata per oltre un ventennio nella sagrestia della chiesa della Provvidenza e da lì spostata, nel 1999 nei sotterranei della Madrice, in occasione di una mostra di reperti storici. Dove mano meno provvida ebbe a procurarne lo spezzamento. Già in tempi meno sospetti, il prof Vincenzo Cannizzo, ispettore delle Belle Arti della Circoscrizione di Siracusa, aveva ammonito il rettore dell’epoca sac. Mario Piazza, durante una visita a Mussomeli, sulla “necessità di proteggere la statua della santa. In quanto, da esperto, constatò lo stato di solfatazione in corso nella pietra, fenomeno naturale dovuto al tipo di materiale poco adatto a resistere alle intemperie in luogo montano.

La statua è composta di tre pezzi in alabastro, provenienti dal territorio mussomelese, basamento, statua e corona. La scultura è stata concepita per essere collocata con la sola visione frontale nella nicchia semicilindrica della chiesa omonima. I canoni estetici sono quelli vicini alle regole di Leon Battista Alberti -1404/1472- che indica il modulo equivalente all’altezza della testa contenuta sette volte in tutta la figura. La sfericità ideale della testa conferisce dinamicità allo sguardo dolce e sereno accentutato dall’andamento sinuoso dei capelli. Alcuni particolari decorativi del panneggio, come il merletto, sono trattati quasi ad incisione. La posa è rinascimentale nella concezione, ma vicina a certi modi seicenteschi per via dei volumi movimentati del panneggio e per la plasticità del drago, presente nella parte bassa che oggi è difettiva di quella centrale. L’iconografia è quella tradizionale, con la palma del martirio nella mano destra, oggi mancante, e nella sinistra, il libro aperto del Vangelo, simbolo della fede cristiana. Si narra che la Santa martire nacque in Antiochia di Pisidia, da un prete pagano che l’affidò a una nutrice cristiana che la fece battezzare. A causa della sua bellezza, la Santa destò l’interesse di Olibrio, governatore della provincia di Antiochia. Ma la giovane Margherità rifiutò con fermezza le proposte. La vita della Santa è istoriata nel piedistallo. Una visita, a fronte di tanti stenti, riteniamo la Santa se la meriti. E un plauso il prete!
Le informazioni storiche riportate sono state fornite dai professori e storici locali Calogero Barba e Tano Schifano.

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