Home Cronaca L’antipasto degli dei: il formaggio dell’entroterra siciliano. Viaggio nella “trazzera del cacio”

L’antipasto degli dei: il formaggio dell’entroterra siciliano. Viaggio nella “trazzera del cacio”

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Mussomeli  – «Come volete governare un paese dove esistono 246 varietà di formaggio?» si chiese Charles de Gaulle, riferendosi alla produzione casearia d’oltralpe. Tralasciando i francesismi e trasferendoci da les  “route des fromages” alla via dei formaggi sicani e del Vallone,  l’assortimento è sconfinato. Una via lattea dell’entroterra della Trinacria, una galassia di sapori, un insieme di formaggi più o meno stellati ma buoni da perdere il palato. Occorre una mappa per orientarsi tra caciocavallo, provola,  pecorino, tuma, canestrato, ricotta. Con i formaggi dell’entroterra siciliano, nessuno piange sul latte versato per trasformarlo in questi  irresistibili antipasti  degli dei.  Vaccini, pecorini, caprini a pasta dura, molle,  filante, cruda e cotta. Una pletora di latticini da far venire l’acquolina in bocca e innalzare il livello di colesterolo solo ad evocarli. Ma la via dei formaggi sicani e del Vallone è tortuosa e dissestata. Una trazzera del cacio a sentir parlare i produttori  che, spesso, ci ripetono come  a filar liscia sia solo la pasta,  mentre si affastellano problemi, ostacoli e tribolazioni . “Il caro prezzi – incalza una produttore –  ha colpito anche noi. Manodopera, costi delle materie prime e di energia incidono tanto. Eppure vendiamo prodotti di eccellenza a prezzi industriali. I consumatori apprezzano, il problema è raggiungerli o farsi raggiungere.  La rete di vendita cammina di pari paso con la rete viaria che non è eccellente come i formaggi che produciamo”.  Se si è anche allevatori tutto si complica ci spiega una signora. “Gli animali  – racconta la donna – sono più esigenti dei figli. Vogliono cure sempre e comunque. Non ci sono feste, non possiamo permetterci di stare male, loro vogliono le nostre cure e attenzioni quotidiane. E’ un lavoro bello ma faticoso, a fronte di tante soddisfazioni richiede rinunce enormi“. A ribollire nel pentolone non è solo il latte ma anche la rabbia. Sbotta, infatti, un addetto alla produzione casearia:  “La guerra ha messo a nudo un sistema che tutti conoscevano. Parliamo di tipicità ma per 5 centesimi al chilo poi la grande distribuzione compra all’estero prodotti più convenienti ma anche più scadenti. Noi siamo l’ultimo presidio del cibo made in Italy, dovremmo avere più tutele, invece siamo vessati da tasse e lungaggini burocratiche”. Parliamo infine con un pastore  veterano,  maestro caseario decano, che sui giovani osserva: “Andrebbero incentivati. Magari con sussidi davvero allettanti anche per chi si accosta a qualunque fase della produzione del formaggio: pastori, allevatori, agricoltori, apprendisti nei caseifici. I sacrifici sono tanti e andrebbero adeguatamente ricompensati. Così facendo non solo si incoraggia il lavoro ma si preservano gli antichi saperi e sapori della nostra terra. Se salta una generazione il rischio è di perdere ricette e tecniche di lavorazione che scompariranno per sempre”. Chi fa un buon  formaggio è un gioielliere del latte  e i gioielli di famiglia vanno custoditi

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