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Mafia e pizzo, la “verità” di un pentito

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Riesi – Parola al pentito. Chiamato a soffermarsi sui rapporti all’interno della famiglia Cammarata di Riesi, a capo di Cosa nostra in quel mandamento.

È stato il cinquantunenne imprenditore riesino  Carmelo Arlotta a deporre al processo a carico boss riesino di Cosa nostra, Francesco Cammarata, la moglie Maria Sciacchitano, i loro figli, Teresa e Giuseppe Cammarata, Orazio Migliore e Giuseppe Montedoro – assistiti  dagli avvocati Danilo Tipo, Giovanni Maggio, Flavio Sinatra e Cinzia Bellomo – finiti sul banco degli imputati per difendersi dalle accuse di estorsione continuata ed aggravata dai metodi mafiosi.

Gli ultimi due, Migliore e Montedoro – secondo la tesi accusatoria – su mandato dei Cammarata sarebbero stati coinvolti nell’estorsione ai danni di un imprenditore trentasettenne di Riesi che, alla fine, ha scelto di non costituirsi parte civile nel dibattimento.

Il collaborante Arlotta ha sostenuto che, a suo parere «i rapporti tra i Cammarata non si siano mai deteriorati». Già perché prima che scattasse il blitz contro il boss e di Cosa nostra ed i suoi familiari, qualche mese prima era stato arrestato il cugino, Salvatore Cammarata, proprio mentre stava riscuotendo il pizzo. Questa, almeno, è stata la tesi accusatoria.

Lo stesso pentito ha aggiunto che «Salvatore Cammarata nel 2017 avrebbero voluto rivestire il ruolo di reggente della “famiglia” su mandato di Gaetano Cammarata… per questo ritengo che i rapporti siano sempre rimasti buoni… ma fermo restando che un quinto dell’estorsione andava a Lillo Li Vecchi», ha conclus

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