(del prof. Gaetano Schifano) Mussomeli –
Quando Guy De Maupassant (1850-1893), fine narratore ed originale esponente del Naturalismo francese, scrisse il racconto “Due amici” era il 1883,pochi anni dopo la fine della guerra franco-prussiana e dell’invasione di Parigi che ne avevano ispirato il contenuto. Tantissimi altri famosi episodi letterari con tema l’amicizia presentano lo stesso caratteristico connubio: guerra ed amicizia. Come dire il sacro e il profano, il diavolo e l’acquasanta. La guerra è rovina, ma soprattutto odio, l’amicizia è amore; in tante lingue, oltre la nostra, queste due parole hanno la stessa radice.
Anche Salvatore e Giovanni furono amici, non a Parigi, ma in una popolosa cittadina del centro-Sicilia: Mussomeli e non furono vittime di guerra come i due amici di Maupassant o l’Eurialo e Niso di Virgilio, ma bersaglio di voci; una guerra metaforica li sfiorò, senza mai ferirli, una guerra di dicerie che ronzò loro attorno e vicino, senza mai colpirli; i soliti cicalecci di taccole con la pancia piena, invidiose di tutte le ali che sanno volare più in alto delle vuote chiacchiere. Un’atmosfera paesana che avrebbe potuto coccolarli ed essere orgogliosa di cotanti figli, ma che spesso non seppe andare oltre la maligna diceria; una visione minimalista della vita, intessuta di invidie e di rancori, tesa e soddisfatta dei soli bisogni materiali. Non è concesso uscire dal coro e chi osa farlo, si prepari ad affrontare la gogna; il diverso è pericoloso perché rompe la compattezza del gregge, mette in luce la mediocrità generale, spinge ad uscire da dietro “il piscazzo”, invita a salire di tono, insomma rompe una piattezza che si crede armonia; un conoscente, morto da tempo, un giorno mi confidò: “Vulissi essiri ‘na papazzana dintra ‘na fava e stari sempri filici e tranquillu”. Fu questa la posa di tanti benestanti dell’Ottocento e del nostro borgo antico, un atteggiamento che non mortificò i loro intelletti, né tanto meno li spense, ma diede occasioni per divertirsi, spunti e lezioni di vita, che grazie alla gran fortuna di essere nati in famiglie agiate, furono rafforzate e rese utili da proficui studi personali.
Giovanni nacque il 13 marzo 1815 in una casa piena di libri e con la tipica gran voglia di apprendere di tutti i bambini curiosi e dotati; Salvatore lo seguì di qualche anno, nel 1819, ma non gli fu secondo nella sete di sapere e nel maneggiare libri; le strade sterrate di Mussomeli ne cullarono l’infanzia e i primi giochi ne rinsaldarono l’amicizia; le loro abitazioni sorgevano tra la Terravecchia e S. Marina (Carmelo), ma a quell’età e in quell’epoca si faceva il giro del mondo in 80 minuti.
Il destino indicò loro la via che dovevano percorrere, una strada che portava a Palermo sede prestigiosa di studi superiori, ma per indole personale e atmosfera familiare scelsero due percorsi, diversi nelle forme e nella sostanza, ma identici nell’obiettivo finale: lasciare un segno indelebile nella dura vita e nella lunga storia del paese che li aveva visti nascere e crescere.
Nel suo corso di studi classici e giuridici a Palermo, alla scuola dei Gesuiti, Giovanni mostrò subito un’intelligenza viva, mordace, che abbinata ad un carattere gioviale e socievole, al di là dei guai familiari e di salute, lo mise subito in grado di giostrare con le parole, di far ridere e sorridere, ma pure di colpire ed esaltare difetti e pregi, vizi e virtù con vivida ironia. Cominciò presto a comporre versi e ad incantare orecchi per la sua sciolta capacità compositiva, per la facilità delle sue improvvisate rime; sarebbe certo diventato un grande avvocato, capace d’incantare le platee dei tribunali, commuovendole al pianto o portandole al sorriso, ma “un funesto disinganno” e un tragico avvenimento lo imprigionarono in se stesso. L’epidemia di colera del 1837, che devastò mezza Italia e lasciò una profonda cicatrice a Mussomeli sottolineata da oltre 500 morti su circa 9.000 abitanti, segnò anche la vita di tutti, quella di Giovanni specialmente. Per molti mesi si chiuse in se stesso, a riflettere, per arrivare a scegliere una strada che non aveva considerato, ma che percorse fino in fondo con passione, spirito di servizio e amore: la scelse nel’42 nel ‘44 divenne sacerdote, scusate Sacerdote, “modello dei veri seguaci di Cristo” disse il suo amico Tomasini nell’elogio funebre, senza mai dimenticare la poesia, le lettere e le sue muse. Quello fu un anno epocale per Mussomeli e tanti altri paesi: moriva la Diocesi di Girgenti e nasceva la nuova Diocesi di Caltanissetta col Vescovo Mons. Antonino Maria Stromillo dell’ordine dei Padri Teatini. A lui la titanica impresa di creare dal nulla una nuova diocesi con annessi e connessi: sedi varie, seminario, amministrazione e soprattutto riportare nel giusto ordine un mondo da troppi anni lasciato in balia di se stesso e delle sue tentazioni. Tra sedi vacanti ed ostacoli vari, epidemie comprese, le ultime sacre visite a Mussomeli s’erano verificate nel 1806 e nel 1836.
Anche Salvatore, in fondo, fu molto fortunato a nascere in una famiglia che gli consentì di mettere a profitto le grandi doti naturali, di studiare a Palermo nell’Accademia degli Studi, divenuta poi Regia Università, e diventare architetto, scusate Architetto, pur se Mussomeli era già provvista di diversi tecnici, di agrimensori, insomma di gente che conosceva o diceva di conoscere le tabelline e i ferri del mestiere, ma che poco aveva lasciato ai posteri da ricordare. Salvatore, con grande impegno (“E mentre che da sera e da mattina mi logoro la vita e il cervello coi libri, col compasso e col bulino”), andò oltre le indicazioni dei committenti, i regolamenti edilizi e la matematica e rese visibili e godibili agli occhi di tutti, anche dei più distratti ed incompetenti, le idee classiche allora in voga e quale armonica bellezza si potesse racchiudere nelle sue realizzazioni fatte non di marmi preziosi, ma di semplici pietre “nostrane”, cavate dalle vicine “giglie”, intagliate ed assemblate da una maestranza esperiente, sapiente e paziente.
Due spiriti diversi, che non avrebbero dovuto, secondo una logica tutta umana ma spesso mal condotta, incontrarsi o andare d’accordo, due esseri che, invece, s’attrassero; due intelletti che nella cultura e nei suoi più importanti mezzi espressivi trovarono, così come polo positivo e negativo s’attraggono, motivo d’unione nella poesia, non la post romantica languida e sfatta, nata morta, ma quella viva e vigorosa, che sferza senza far male, fa sorridere, riempie gli orecchi e la mente. La lingua usata fu dell’Ottocento, ma la sostanza è quella di sempre.
Così, mentre Giovanni, nutrito di diritto e d’umanesimo, cominciava ad insegnare le belle lettere e a portare a rinnovato splendore la chiesa di Maria SS. della Provvidenza, vicinissima alla sua abitazione, dotandola di arredi e giogali che mai aveva in passato avuto, ma anche a mettere alla berlina qualche suo venale collega o a descrivere le chiese di Mussomeli e il loro stato e funzionamento, come fece nel suo “Prospetto delle chiese di Mussomele “del 1859, l’amico Salvatore diveniva nel 1844 tecnico di fiducia del Comune e di tanti estimatori privati che vollero affidargli la realizzazione non solo delle loro dimore temporanee, ma anche di quelle finali: palazzo Mistretta, la Cappella del Rifugio dei Sorge-Malaspina ed altri edifici. Nel settore pubblico operò con un spirito futuristico così savio e versato al sociale che tanti inferiori, i quali badavano al sodo ma da miopi, lo criticarono; l’immensa Piazza Grande, l’ampia e luminosa via Palermo sono testimoni del suo essere ancora oggi oltre il tempo e le meschinità speculative edilizie, come come lo sono il Calvario, il nuovo acquedotto Bosco- Palazzo, la fontana-lavatoio dell’Annivina, le fontanelle a getto intermittente sparse per il paese, le carceri presso S. Domenico .
Da giovani credenti e creduloni, passionari ed infiammati, credettero pure nei moti del ’48 e nella redenzione di un’Italia finalmente unita. Ne fu testimone lo storico villalbese Giovanni Mulé Bertolo, che nella sua opera “La rivoluzione del 1848” scrisse: “Ricordo con onore i nomi di cotesti ardimentosi figli di Mussomeli … Salvatore Costanzo, bravo architetto e spontaneo e lepido poeta; Sac. Giovanni Barcellona che allo studio delle sacre carte sposò con ammirazione e plauso degl’intendenti il culto delle muse, scrivendo liriche e sermoni …”.
Poi, quando finalmente i Savoia possedettero anche i loro feudi meridionali e tutto sembrò acquetarsi, nella Mussomeli post-unitaria, tutta persa e disillusa, affannata nella sua corsa al grano e alle terre, nelle processioni e nei diritti di precedenza, nelle interminabili liti per i limiti o nelle questioni tra i circoli e i ceti, nella politica e negli affari pubblici con decine di opere ( strade, ponti, cimitero) da realizzare e un profluvio di denaro pubblico, sembrò ancor più fuori da ogni logica, fuori dal tempo che due intelletti di tal fatta si perdessero in quisquilie come l’archeologia, la pittura, la musica e … la poesia. Chi era privo di pazienza e sopportazione, ma soprattutto di farisea ipocrisia, come un certo Paolo Emiliani Giudici, fece le valige e cambiò aria ed amici. Puah !
Al sodo bisognava mirare, al sodo !
Tra sorrisini striduli, mezze battute ed occhiate di compassione, i due amici, dilettanti di poesia, professionisti della vita ed amanti dell’Arte e della Bellezza, si videro costretti a volare più in basso, per guardare da vicino e capire in che cosa e perché i polli sono differenti dalle aquile: volteggiando con padronanza, planarono verso il basso, tra la polvere e il fango, compresero e ripresero quota nell’azzurro, tra i cieli puri incapaci di trattenere il sudiciume. Alfine, risposero così.
IL SODO
Capitolo dell’Architetto Salvatore Costanzo all’amico Giovanni Barcellona
Amico mio Giovanni Barcellona
Senti qua, tu che se’ prudente e dotto,
Un capitolo fatto alla carlona.
L’orecchio me lo introna un certo motto
Che dice: “Pensa al Sodo figliuol mio
Altrimenti sarai conquiso, e cotto.
Ve’ come corre il tutto nell’oblio
E tel ripete l’Eco in ogni passo ?
Al Sodo, al Sodo, dunque figliuol mio”.
Se leggo il Dante, l’Ariosto o il Tasso
Il Parini e il Filosofo di Zante,
Se adopero il pennello od il compasso,
Mi grida un ciuco riunto ed ignorante
“Deh pensa al Sodo, e questo sol ti basti”
Ed il titol mi dà di stravagante
Da questa taccia illeso non ne andasti
O tu che là dell’Arno sulle rive
Sei la gloria e l’onor de’ nostri fasti ….
Solo in trionfo va qualche gradasso
Che parla di stalloni e di cavalli
Di selle e carabine e ne fa chiasso …
Se qualcun poi dice tre parole tosche
Tutti ridono e vanno sogghignando
E van ronzando come fan le mosche. …
Un altro poi se colle storie in mano
Ricorda i fatti antichi, e le leggende
Per meglio riformare il cuore umano
Gridan fra lor: “Costui il tempo spende
Nelle castronerie, pensasse al Sodo
E via lasciasse andar queste faccende”.
Ed io fra me tutto mi sdegno e rodo
Che queste cose dette son da tali
Che vivon senza infamia e senza lodo,
Somari e buontemponi magistrali
Al tutto inetti ed unti di saime
Dalla cervice insino agli stivali.
Né io la finirei con queste rime
Se volessi ridir le mie ragioni
Contro questa canaglia che m’opprime.
Il Sodo, il Sodo intanto in tutti i toni
Mi sento ricordar ogni tantino
Da certi sollennissimi minchioni.
E mentre che da sera e da mattina
Mi logoro la vita e il cervello
Coi libri, col compasso e col bulino
Sento l’intercalar di quello stornello
“Al Sodo, al Sodo, drizzati Architetto”.
Capisci ! Al Sodo e questo fia il suggello.
Giovanni, tu che sei d’alto intelletto
E d’ogni cosa scrutator profondo
Dimmi con un linguaggio franco e schietto
“Che s’intende per Sodo in questo mondo”.
Capitolo di risposta di Giovanni Barcellona all’amico Salvatore Costanzo
Che cosa è il sodo ? E che ! ci vuol cotanto
A interpretarlo ? Tu che se’ Architetto
E’ meraviglia che l’ignori tanto.
Vorreste sodo un muro ? A questo effetto
Piàntavi sotto pietre d’un quintale,
e sia grosso una canna insino al tetto. …
Soda una bestia ? un mul da caricare ?
Abbia le cosce così piene e goffe,
larghe le spalle, e un cul da spiritare
Sodo un gran Dottoron ? Sotto le stoffe
Che l’involvon da’ piedi alla cocolla
Abbia il lardo gittato colle coffe.
Sodo nel parlar nostro consueto
Si dice d’un oggetto così stabile
Che non lo puoi voltar dianzi né dietro:
Uom sodo è perciò chi può il mangiabile
Mangiarsi in fin che con tutto il suo peso
Corcato schiacci il pensier tristo e labile.
Tutte l’altre cose sono uno zero di questa al paragon
Che al mondo non è sodo altri che il brodo
E la salciccia , e il vin, che in bell’implico
Impastati tra lor dentro dell’alma
Fan sodo l’uom dal capo all’umbilico. …
E’ sodo dunque un uom quando t’apprezza
Una taverna più d’ogni tesoro
E mena i denti in tutta la destrezza.
Soda quindi fia l’arte di coloro
Che mirano ad empir d’argento il sacco,
Poi coll’argento al ventre dar ristoro. …
Che giustizia ? Che onestà ? che fraterna
Carità ? Che costumi ed arti belle !
Lasciale andare per Dio, ché la taverna
E’ del sodo la scuola, e le mascelle
Gli strumenti più eletti, e più d’un palmo
Di lardo sotto la distesa pelle
Frutto d’un sodo sovrumano ed almo.
Avec le temps, avec le temps, va, tout s’en va, on oublie le visage et on l’oublie la voix…
Col tempo tutto passa, cantava Léo Ferré qualche anno fa: si dimenticano visi, voci e persone amate.
Giovanni Barcellona morì il il 25 gennaio 1872, “travagliato per più anni da reumatismi che gli facevano aborrire la vita, per una sopraggiunta gastritide”, scrisse il suo amico fratereno Antonio Tomasini. Per espressa volontà, si fece seppellire nella sua amata chiesa di Maria SS. della Provvidenza, a destra dell’altare maggiore, in una nicchia sotto la statua di S. Pietro; ad indicarlo una lapide di marmo di cm 20×20 con inciso “25 gennaro 1872 S.D. G. B.
Il 10 maggio 1872, se ne parlava già dal 1830 e il problema s’era aggravato con le due epidemie di colera del ’37 e del ’67 (Ma, sapete la burocrazia non è stata inventata ieri…), l’architetto Costanzo fu finalmente autorizzato da un finanziamento a presentare il progetto del cimitero comunale: quasi tre tumoli di terra nei pressi della cadente chiesa di S. Maria degli Ammalati, proprio dove si portavano a dorso di mulo moribondi e morti per malattie infettive. Fu ripresa la chiesa, furono costruite anche una camera mortuaria e una stanza per il custode.
Salvatore Costanzo vi prese dimora il 29 gennaio 1889 nella parte alta, lungo il vialetto che a sinistra porta alla tomba di Maria SS. Dei Miracoli. Che fosse una persona speciale, lo dimostrò ancora una volta con il suo epitaffio: “Vivo fui d’esta necropoli
Con onore l’architetto
Ed or spento io qui negletto
Cener muto giacerò
Passeggier deh per me prega !
Fui Costanzo Salvatore
Della tuba al gran clangore
Nel gran di’ risorgerò.
Riposino in pace, ma non nella nostra memoria.
N.B. La poesia è stata accorciata e trascritta esattamente come stampata nel 1873.