Acquaviva Platani – Parafrasando Manzoni verrebbe da dire -o da scrivere- “quel baglio sulla SP 16 che albeggia sui monti Sikani”. Eppure a prescindere da qualsivoglia spiritosa -ancorchè pretenziosa- citazione, piuttosto va da sè chiedersi: “chi, approssimandosi a raggiungere la SS 189 -direzione Palermo o Agrigento poco importa- non è stato rapito da quel superbo esempio di architettura rurale che immoto giace nella piana della campagna acquavivese, in contrada Salina? Signore del suo popolo, col corpo intatto e l’anima distrutta, quale materializzata profezia dell’altro grande che di nobiltà -e miseria- siciliane davvero se ne intendeva. Quel Giuseppe Tomasi che della nostra isola ne decretò -e ne ravvisò- le sorti ancor prima del tempo che lo vide realmente esistente. E quell’atavico deposito di cereali, emblema architettonico del feudalesimo siciliano, nasce con una funzione prevalentemente primaria, quella di deposito di cereali, ma nel tempo e col tempo si fa testimone non di un’era ma delle varie che si sono succedute dal 1500 al 1700 prima e poi di quelle a seguire. La nascita del baglio -sulla cui etimologia vige ancora comunque una certa incertezza- infatti coincide con il periodo di colonizzazione di vaste aree della Sicilia, allora abbandonate ed incolte, da parte dei baroni ossia i nobili locali proprio nell’arco temporale dei due secoli. Avvalendosi della “licentia populandi” con la quale lo stesso Francesco Spadafora nel 1635, fondò il paese di Aqua Vivam così chiamato per via dell’abbondanza di sorgenti riscontrate all’interno del territorio. Tra l’alta Valle del Platani e sul Monte Cammarata, a coniugare in sè i due estremi opposti del nostro paesaggio, le valli e i monti. Custode di storia e dei segreti che inevitabilmente essa reca con sè, l’altero monolite oggi è quasi interamente proprietà di Calogero Nicastro che sin da piccolo sognava e profetizzava che la “roba” un giorno sarebbe stata sua. E così fu. Il bagio Salina -così ci siamo arrogati il diritto di battezzarlo- rispetta le caratteristiche tipiche delle costruzioni della Sicilia spagnola, realizzate nelle aree rurali interne tra il ‘500 e il ‘700, secondo uno chema ben preciso overo una fattoria fortificata con il corpo centrale e le stanze che si affacciano attorno al cortile centrale. Con molteplici stanze e poche finestre il baglio ospitava oltre la famiglia del nobile locale, anche i contadini. Con pochissime aperture verso l’esterno, a garantirne la sicurezza, gli ambienti, sia quelli del primo che quelli del secondo livello, si affacciano sul cortile interno pavimentato con i classici ciottoli di pietrame posti a coltello. La pendenza ricalca il modello dell’impluvium romano per garantire la defluizione delle acque. I vari ambienti dalle altissime volte, recano nelle arcate i segni violenti della recisione che si operò ogni qualvolta avveniva una divisione fra eredi. Mentre i soffitti altissimi assicurano tuttora temperatura ottimale per la stagionatura dei formaggi, della ricotta salata in primis. “Da una pietra di fondazione” riferisce il proprietario “si può risalire al1671 quale probabile data idicativa della costruzione”. “U cupuluni” o “a roba da Salina” come viene inteso in gergo paesano, l’edificio dell’ex feudo di Mussomeli, ceduto poi a Cammarata, vide quale ultimo rampollo della nobiltà isolana Pietro Lanza Branciforte Mastrogiovanni Tasca, principe Lanza di Scalea, meglio noto come Pietro Lanza di Scalea, scomparso a Roma nel 1938. Non toccato dalla riforma agraria che ha sancito le sorti dell’attuale distribuzione agricola dei terreni, custodiva all’interno delle sue 300 salme un abbeveratoio per fattura assai simile a quello del castello. Sorte più felice dei suoi gemelli diversi non gli è stata certo riservata dall’incuria e dall’inettidune che fa fatto strage di opere semplicemente non facendo. E al nuovo proprietario, subentrato a coloro che avevano acquistato direttamente dal principe, oggi non rimane che prendersi cura dell’anima distrutta di quel bellissimo corpo (di fabbrica) violentato e semi abbandonato.