Caltanissetta – Troppe zone d’ombra nell’indagine che pesano su quei quattro ergastoli e una quinta condanna. E così, al termine di una interminabile quanto meticolosa requisitoria, è stata la stessa procura generale a chiedere l’assoluzione di cinque imputati alla sbarra per il delitto del riesino Salvatore Fiandaca, assassinato il 13 febbraio di sei anni fa.
Sarebbe un clamoroso colpo di spugna al «fine pena mai» inflitto in primo grado al ventitreenne Giuseppe Antonio Santino, al trentottenne Gaetano Di Martino, al trentaduenne Michael Stephen Castorina e al trentaquattrenne Pino Bartoli – difesi dagli avvocati Giovanni Maggio, Vincenzo Vitello, Michele Ambra, Adriana Vella e Angelo Asaro – così come per la condanna 5 anni di carcere comminata al trentaduenne Loris Cristian Leonardi – assistito dagli avvocati Carmelo Terranova e Giada Faraci – ritenuto colui che avrebbe procurato un fucile calibro 12 utilizzato poi dai sicari.
In quattro lunghissime udienze i sostituti pg Antonino Patti e Gaetano Bono hanno messo in discussione praticamente l’intero impianto accusatorio del primo processo, evidenziando una serie di elementi che sarebbero lacunosi.
Come, ad esempio, il giallo di una cicca di sigaretta ritrovata sul luogo del delitto. Quella era una mattina piovosa, eppure il mozzicone recuperato sulla scena dell’agguato non soltanto non sarebbe stato bagnato, ma appariva come se fosse stato chiaramente spento in un posacenere. Con la tipica deformazione da schiacciamento su un portacenere.
E poi il cosiddetto testimone chiave, un trentenne riesino che non essendo mai stato sentito nel primo grado del giudizio , è divenuto in qualche modo determinante. Perché suoi colloqui in auto con il vice coordinatore vicario regionale di «Rete per la legalità – Sicilia», avrebbero finito per incastrare i cinque imputati. Anche se lo stesso teste, poi sentito in questo processo d’appello, seppur tra mille «non ricordo» non ha nascosto di essersi sentito in qualche modo influenzato.
Altro aspetto su cui si è centrato il focus dei due sostituti pg, sono stati proprio il luogo e le modalità con cui le microspie sono state montate sull’auto dello stesso vice coordinatore isolano di «Rete per la legalità – Sicilia». E poi quelle sue telefonate immediate allo stesso teste, effettuate subito dopo il montaggio delle “cimici” della cui esistenza, in teoria, sarebbe stato all’oscuro. Ma anche questo è un altro cono d’ombra posto dalla procura generale.
O, ancora, la telefonata che subito dopo l’agguato Bartoli ha effettuato ai carabinieri, urlando e piangendo mentre chiedeva aiuto perché avevano sparato a lui e il suo amico (Fiandaca ndr) e singhiozzando riferiva che lui era riuscito scappare, ma non sapeva il suo amico che fine avesse fatto. Telefonata che l’accusa ha fatto riascoltare in aula «perché solo un grande attore sarebbe capace di questo». Per l’accusa, invece, Bartoli avrebbe dato in pasto l’amico ai killer.
E diversi altri passaggi dell’indagine sono stati messi in discussione dagli stessi pg fino a chiedere, al termine del loro requisitoria, una riforma totale della sentenza che, nel concreto, diverrebbe un colpo di spugna a quattro ergastoli e una condanna a cinque anni.
Poi gli interventi delle parti civili – assistite dagli avvocati Walter Tesauro e Giovanni Pace – e del collegio difensivo.