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«Messina Denaro sapeva di essere latitante», sì al processo d’appello alla primula rossa per le stragi del ‘92   

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Caltanissetta – Il capo dei capi di Cosa nostra sapeva di essere ufficialmente latitante. E, come tale, è assolutamente processabile in contumacia.

Non ha avuto dubbi in tal senso la corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta, presieduta da Maria Carmela Giannazzo,  sciogliendo la riserva su una richiesta che era stata avanzata dalla difesa del boss di Castelvetrano, Matteo Messina Denaro, già condannato in via definitiva per le stragi del ’93 e in primo grado anche come mandante per le stragi di Capaci e via D’Amelio.

I difensori d’ufficio, Giovanni Pace e Salvatore Baglio, infatti hanno chiesto la nullità del decreto di latitanza. Già, perché secondo i due legali non sarebbe certo che il boss sapesse che venticinque anni prima era stato emesso un ordine di carcerazione a suo carico in veste di presunto mandante per le uccisioni dei magistrati Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino e i rispettivi agenti delle scorte.

Ma in tal senso il “no” della Corte è stato categorico. Per cui a settembre si aprirà ufficialmente il processo d’appello alla primula rossa ormai ricercato dal lontano 1993.

Messina Denaro, secondo la tesi dei magistrati nisseni, sarebbe tra coloro che avrebbero avallato la linea stragista di Cosa nostra.

E nell’ottobre dello scorso anno, dopo una camera di consiglio fiume, l’Assise di Caltanissetta, presieduta da Roberta Serio, lo ha condannato al «fine pena mai»

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