Caltanissetta – Qualcuno ha negato, altri hanno preferito tacere. Sono le due strategie difensive differenti scelte dalla cosiddetta “mafia dei campi”. Quella finita l centro dell’indagine die carabinieri ribattezzata «Attila». Con sullo sfondo, l’omicidio del trentaduenne pakistano Adnan Siddique.
Il ciclo d’interrogatori fissato a carico della presunta organizzazione di pakistani – tra loro anche una donna canicattinese – ha tracciato un primo spaccato difensivo.
Tra coloro che hanno preferito non spiegare nulla in questa fase v’è anche il presunto capo del gruppo il ventisettenne Muhammad Shoaib che avrebbe retto le fila. Come lui hanno preferito avvalersi della facoltà di non rispondere anche il il ventottenne Ali Imran inteso “Muhammad Imran Cheema”, il ventitrenne Bilal Ahmed e il quarantottenne Muhammad Mehdi.
Si sono difesi gli altri ribattendo alle rispettive accuse mosse a loro carico. A cominciare dalla ventunenne di Canicattì, Giada Giarratana – la sola ai domiciliari mentre gli altri coinvolti nell’inchiesta sono in carcere – che ha ammesso di avere convissuto con Imran, «Non avevo capito che persona fosse anche perché non ha avuto mai sentore di nulla. Io, con le sua attività non ho mai avuto nulla a che vedere e solo dopo il suo arresto mi sono resa conto e sono rimasta scombussolata», si è difesa rispondendo alle domande del giudice.
Si sono difesi anche il trentasettenne Arshad Muhammad, il trentaduenne ShujaatAlì, il trentaduenne Nawaz Muhammad e il il ventenne Muhammed Awan Sharjeel.
Gli arrestati – difesi dagli avvocati Giuseppe Dacquì, Salvatore Baglio, Massimiliano Bellini, Giovanni di Giovanni, Rosario Di Proietto, Vanessa Di Gloria e Giuseppe Speranza – sono statti tirati in ballo a vario titolo, per associazione a delinquere finalizzata al reclutamento e allo sfruttamento della manodopera destinata a terzi, estorsioni, sequestro di persona, rapine, lesioni aggravate, minacce, violazione di domicilio, violenza o minaccia per costringere a commettere un reato.
Sei di loro erano già stati arrestati per il delitto Siddique perché ritenuti coinvolti, con ruoli differenti, in quella missione di morte scattata la sera del 3 giugno scorso perché la vittima – pur svolgendo altra attività – stava in qualche modo guidando la rivolta contro il caporalato da parte di altri suoi connazionali sfruttati nelle campagne.
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