Caltanissetta – «È solo per rancore nei mie confronti che mi accusa». Così, replicando a un pentito, s’è difeso un riesino accusato di un omicidio in Lombardia. A cui lui, secondo la tesi accusatoria, avrebbe preso parte insieme ad altri riesini.
È la tesi a discolpa avanzata dal quarantasettenne Salvatore Tambè – assistito dagli avvocati Vincenzo Vitello e Adriana Vella – alla sbarra dinanzi la corte d’Assise di Monza.
È tirato in ballo per il delitto del quarantaduenne di nazionalità albanese, Lamaj Astrit, sparito nel gennaio del 2013 e cui resti sono stati trovati nel gennaio di tre anni fa in una villetta del Monzese.
Ribattendo alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia riesino Carmelo Arlotta , l’imputato ha spiegato le sue ragioni.
«Mi addita solo per astio nei miei riguardi» ha riferito alla Corte. E il perché sarebbe presto spiegato. Suo cognato, Angelo Arlotta, fratello del pentito – e a sua volta poi anch’egli divenuto collaborante – dopo avere litigato con il familiare avrebbe lasciato l’impresa edile del fratello per andare a lavorare nel negozio di ricambi usati gestito dallo stesso Tambè.
E questo, Carmelo Arlotta – è la teoria dell’imputato – non lo avrebbe per nulla digerito. Si sarebbe atteso tutt’altra reazione. E per questa ragione, sempre secondo la tesi difensiva, adesso lo tirerebbe in gioco per quell’omicidio.
Delitto che, sempre per i pm, sarebbe stato ordinato da una imbonitrice riesina già condannata. E ne avrebbe voluto la morte per più ragioni. Intanto per la fine della relazione sentimentale con l’albanese da lei non gradita. E poi perché lo avrebbe ritenuto l’autore di un furto di preziosi in casa sua.
L’altro collaborante, Angelo Arlotta, invece, non ha mai citato il nome del cognato, di Tambè, riferendo ai magistrati sul delitto Lamaj.