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Con “Attese tradite” torna il dibattito sulle miniere in disuso del nisseno

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Mussomeli – Venerdì 16 giugno a Palazzo Sgadari si è discusso di “Attese tradite” e del colossale disastro ambientale del cosiddetto “quadrilatero della morte”. Quei 20 kilometri di costa siciliana compresi fra i territori di Augusta, Melilli, Priolo Gargallo, fino alle porte di Siracusa che, invero, costitiscono il più grande polo petrolchimico d’Italia e il secondo d’Europa. Con un’incidenza di mortalità e di malformazioni neonatali tali da fargli guadagnare l’infelice appellativo. A far scoccare la scintilla è stato Lello Fargione, autore, di Palazzolo Acreide, una laurea all’Accademia di Belle Arti e una passione sfrenata per la fotografia. Talmente sfrenata da fargli superare i confini profanati dei luoghi sacrissimi della memoria. Già citati da Giuseppe Tomasi e Plinio il Vecchio, ovviamente in momenti della storia molto distanti fra loro. Poi è divampato l’incendio che “come fiamma s’accende da fuoco che arde”. Il curatore del saggio, l’architetto fotografo sancataldese, Santo Eduardo Di Miceli, in collaborazione con la Fidapa, sezone di Mussomeli, ha organizzato e promosso l’incontro attorno ad una scottante questione. Miniere Bosco speculare ad Augusta e Gela. Ed è stato così che si è demolito un tabù. Il disastro ambientale e le sue conseguenze, a lungo il più taciuto e quindi il più innocuo degli argomenti di conversazione è entrato nella testa dei presenti dalla porta principale. Il parterre era quello delle grandi occasioni, con il sindaco Giuseppe Catania, deputato regionale a fare gli onori di casa al tavolo dei relatori insieme all’autore, al curatore del saggio, nonchè obiettivo irriverente, l’architetto Di Miceli, alla dottoressa di ricerca in Sociologia dell’Ambiente, Valentina Pantaleo dell’Università degli Studi di Catania, che ha relazionato brillantemente, e al giudice Giovanbattista Tona, il magistrato con la scorta che ha incantato la platea, con lo sguardo ipnotico e il magnetismo della favella. Ha parlato col tono suadente di chi sa di essere ma non se ne accorge. Del sogno e della sua morte. E lancia un monito “Siamo un pò tutti classe dirigente” richiamando ognuno alla propria responsabilità di cittadino. Che non può e non deve derogare sempre alla tanto abusata e inflazionata “classe dirigente”. C’era non poca fibrillazione in paese a partire dalle prime ore del pomeriggio. L’assessore alla Polizia Municipale, dott. Daniele Frangiamore, si era già adoperato per garantire l’ordine pubblico necessario. In platea, oltre al già citato assessore, anche il presidente del consiglio Gianluca Nigrelli, la sua vice, nonchè socia Fidapa, Iosella Schifano e il maresciallo della guardia di finanza, dott. Gaspare Meo. Si sa, queste cose vanno così. Ti avvertono solo quando stanno per arrivare. Mai una parola prima nè una di più. E’ quel quid che si aggiunge alla naturale frenesia di ogni evento. Ma non appena sceso dal sedile posteriore dell’auto con i vetri oscurati, scorato dai due agenti, “I Siciliani” di Pippo Fava gelosamente custodito sotto l’ascella, assieme al tablet, e solcato il basolato di Piazza Roma, il giudice viene rapito dai ricordi. La malìa dei luoghi, quei “luoghi sospesi” che ha più volte citato durante il suo intervento. Luoghi in attesa di un ritorno, perchè una casa è sempre una casa. Non rifiuta un caffè al bar, anzi è il pretesto per parlare del castello, di Sutera, degli interstizi del cuore negli anfratti della memoria. Tiene banco il giudice davanti e dietro il tavolo. Sembra un pò come stare in uno di quei quadri del Rinascimento italiano che narrano la vita di Cristo. Sono sempre affollati, c’è tanta gente che fa un sacco di cose, anche strane. Ma vedi subito chi è il santo. A partire dalla folla i processione dove ognuno tenta di farsi largo per stringergli la mano sul sagrato del palazzo. E, con l’umltà che non ti aspettavi, ha accettato subito, dopo aver sfogliato il volume, pagina per pagina, di parlarne e di metterci la faccia. Insieme a tutti gli altri autorevoli relatori che non si sono tirati indietro dal discutere su una dolorora pagina che ci appartiene, solo per l’occasione sublimata dall’arte nell’arte. E le immagini di Fargione parlano chiaro. Evocative e potenti hanno saputo estrapolare la poesia dalle macerie, dall’odore di morte. Con l’arte maieutica che narra una quotidianità mancata nei luoghi violentati che si sostanzia nei feticci del passato creando un distillato di senso o non senso. Ovunque è acora un’attesa. Laddove quel santo principio che recita “salus populi suprema lex” appare menifestamente tradito come le “Attese” di Lello Fargione. E l’epifania del mistero che si denuda in tutta la sua crudezza e la sua maestosità perchè i luoghi sono sempre i luoghi dell’abitare, sono i segni dell’appartenenza e il riconoscimento di sè nell’altro. Così, abbondantemente dopo le otto di sera, cala il sipario su via Minneci, splendida nella sua veste notturna con i fantasmi del passato e la brezza fresca di un giugno freddissimo che ci avverte che è tempo di dispiegare le vele verso altri lidi.

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