MUSSOMELI – Nella giornata del 68° anniversario della dolorosa vicenda dei “Fatti dell’acqua”, l’intervista rilasciata al quotidiano “L’ORA” di Palermo il 17 febbraio del 1984 dal papà scomparso di Paolo Piparo, noto bancario e pilota di rally, Salvatore Piparo che il quotidiano intitola “Testimoni di morte”. La tragedia dei morti a Mussomeli per i fatti dell’acqua di quel 17 febbraio 1954 provocò un dolore la cui ferita, ogni qualvolta si rievoca il ricordo, è difficile da rimarginare, soprattutto per i familiari delle vittime, anche se sono passati ben 67 anni. Per disperdere la folla che protestava per l’acqua davanti la casa comunale, il comandante dei carabinieri, il maresciallo Giuseppe Sturiale, ordinò ai suoi uomini di usare le bombe lacrimogene. Il panico ebbe presa sulla povera gente impaurita, che con gli occhi che lacrimavano a causa dei lacrimogeni, cominciò a scappare dalla via Della Vittoria verso Piazza Chiaramonte, fu una strage che provocò morti e sofferenze, ma ancora per la comunità di Mussomeli il bello, in questo caso il brutto, doveva ancora venire. Il primo aprile la cittadina fu rastrellata dalle forze dell’ordine mandate dal ministro dell’interno Mario Scelba che misero sotto sopra una comunità fatta di lavoratori e gente che semplicemente chiedeva ciò che era un diritto, stremata da una condizione certamente di povertà e di umiliazioni. Vennero eseguiti 44 arresti tra uomini e donne, in particolare tra gli esponenti dei partiti di sinistra, accusati di avere gestito la protesta popolare esclusivamente a fini politici, aizzando le folle. Il processo farsa si concluse a ottobre con 27 condanne. Nell’intervista di Salvatore Piparo la sofferenza di chi ha vissuto sulla propria pelle una tragedia che sconvolse la vita di molti. Così afferma Paolo Piparo: “Una tragedia per Mussomeli ed i mussomelesi, che la nostra famiglia ha vissuto in prima persona nei ricordi che mio papà ci narrava e nell’intervista che egli stesso rilascio al quotidiano L’Ora di Palermo il 17 febbraio del 1984”. “C’è poco da fare: a Mussomeli se cominci a parlare di quei “fatti” di quelle drammatiche giornate è come se una ferita, per nulla cicatrizzata da tempo, si aprisse da capo. Certe cose, quando le hai vissute sulla tua carne, fino all’osso, non riesci a rimarginarle nemmeno quel “galantuomo” del tempo. E la memoria va subito a quella notte del primo aprile del 1954: per i Mussomelesi resterà quello il più amaro e tragico “pesce d’aprile” ordito da uno Stato troppo lontano, troppo disumano agguerrito contro i deboli e contro chi non poteva permettersi in quegli anni nemmeno il lusso di pagarsi l’avvocato per la difesa. Quella notte tutta Mussomeli, fu rastrellata da carabinieri e poliziotti, oltre 300 mandati da tutta l’isola, col preciso compito di ripristinare in paese il “volto della legge” e l’ordine pubblico. Salvatore Piparo, che fu in vita impiegato alla condotta Agraria di Mussomeli era anche il figlio di uno dei tanti, oltre 60, mussomelesi arrestati in quella drammatica notte d’Aprile di 30 anni fa, dopo i tragici fatti dell’acqua. Bussarono alla porta, che erano le due di notte. Si alzò mia madre, andò ad aprire in camicia da notte e immediatamente la casa si riempì di carabinieri. Due di loro con i mitra spianati sul letto ordinarono a mio padre ancora assonnato di seguirli immediatamente …” Allora avevo poco più di vent’anni – ma per lui, così come per l’anziana madre Vincenza Sorce, il ricordo di quella terribile notte del primo aprile non è mai stato intaccato dalla sedimentazione del tempo- ricorda – dormivo quella notte nella stanza accanto a quella dei miei genitori, e lì per lì, svegliato di soprassalto da quelle voci concitate, pensai che certamente ci doveva essere stato uno sbaglio di persona… Non era possibile che mio padre, un uomo buono, onesto lavoratore che non aveva mai fatto male a nessuno, potesse essere trattato come il peggiore delinquente… Dal 17 febbraio, giorno della strage, al primo aprile erano intanto trascorse alcune settimane, settimane di grande indignazione e protesta in tutta Italia per l’orrendo massacro, ma anche di grande mobilitazione e solidarietà umana per i familiari superstiti delle vittime e degli arrestati”. Fu instaurato tutto un sistema processuale, fatto di false accuse, che doveva portare a rendere all’opinione pubblica nazionale certo il fatto che la colpa non era stato dello Stato e degli organi preposti a rappresentarlo in quella famigerata giornata del 17 febbraio ma della folla che aveva osato andare oltre certi limiti. L’importanza era solo che si deponesse contro quella povera gente, che si preordinassero prove per avvalorare la tesi dell’assalto al palazzo: Il giorno dopo l’eccidio il salone del Municipio era stato trovato stracolmo di sassi, anche se nessuno riusciva a spiegarsi come erano potuti entrare dal momento che i vetri di tutti i balconi, tranne un piccolo foro, erano completamente intatti. Il fatto suscitò l’ilarità e le ironiche battute della brillante difesa per bocca del parlamentare Terracini: “Ammiro questo popolo di Mussomeli, esclamerà Terracini nel corso dell’arringa, che è stato così bravo tiratore scelto…che da un piccolo foro della finestra è riuscito a fare entrare tutte quelle pietre dentro il municipio…”. Addirittura lo stesso presidente della Corte di Caltanissetta, Piscitello, nel corso delle deposizioni delle guardie municipali avrà uno scatto d’ira, prontamente censurato dalla stampa ufficiale, contro quei testi palesemente falsi. Tanto vergognose e insopportabili dovevano apparire le loro deposizioni!” Ma qualcuno doveva pagare. Così, per Vincenzo Consiglio, Giovanni Calà, Francesco Lo Brutto, Salvatore Guarino, Vincenzo Piparo, Calogero Invernano (il segretario della sezione comunista, Francesco Lo Brutto, scappato di notte da casa resterà per sei mesi alla macchia) e per tanti altri dirigenti di sinistra e sindacalisti, non resterà che il carcere, la lunga attesa del processo, di uno stralcio di sentenza “in nome del popolo italiano” che sarà poi un vergognoso “verdetto di condanna” contro un intero paese.