Caltanissetta – Un’assoluzione e due prescrizioni. E nel concreto, dal punto di vista processuale, sostanzialmente nulla è mutato in relazione all’originario scenario sul presunto depistaggio sulle stragi del ’92. In particolare, in questo caso per l’uccisione del magistrato Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta.
Sì, perché se uno dei poliziotti che componevano il pool anti stragi – guidati dall’allora capo della mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera – Michele Ribaudo, alla fine è stato assolto dal tribunale di Caltanissetta.
Ma se in questo caso il Collegio giudicante è entrato nel merito della questione giungendo alla conclusione che Ribaudo non s’è reso responsabile di alcuna manipolazione della indagini, per altri due poliziotti, il funzionario di polizia Mario Bo e Fabrizio Mattei, il procedimento s’è chiuso con il non luogo a precedere per intervenuta prescrizione.
E il perché è presto spiegato. Tutti e tre sono stati accusati di calunnia. Inizialmente è stata contestata loro pure l’aggravante di avere favorito l’organizzazione mafiosa. Ipotesi, questa, che poi è caduta.
Così da fare finire i fatti al centro del procedimento in prescrizione. È trascorso troppo tempo perché la giustizia, ad ogni modo, possa fare il suo corso.
La procura di Caltanissetta – attraverso il procuratore capo Salvatore De Luca e il sostituto Stefano Luciani – al termine della requisitoria, aveva chiesto tre condanne.
Più in dettaglio, undici anni e dieci mesi per Bo e nove anni e mezzo ciascuno per gli altri due poliziotti.
I tre – secondo il teorema della procura nissena – avrebbero sostanzialmente costretto il falso pentito Vincenzo Scarantino a raccontare una verità costruita che, per tantissimi anni, ha tracciato un quadro distorto sulla stragi, facendo poi peraltro condannare all’ergastolo degli innocenti .
S’è ristabilita la verità, almeno in relazione a quel primo troncone principale, solo diversi anni dopo attraverso le rivelazioni del collaborante Gaspare Spatuzza. Tanto da fare scattare la revisione del processo a coloro che erano stati ingiustamente condannati al carcere a vita.