Gela – Reggono, ora come allora, le condanne inflitte in primo grado. Affermazioni di responsabilità che sono legate a minacce e ritorsioni ai danni di un imprenditore.
Sì perché la sua società la « Roma costruzioni» di Gela ha subito un attentato incendiario perché non si sarebbe piegato al ricatto della mafia. Richieste che sarebbero state documentate dagli investigatori raccogliendo intercettazioni telefoniche e ambientali.
In particolare non avrebbe accettato un paio di assunzioni di operai che gli erano state imposte in relazione a un appalto pubblico per la raccolta e smaltimento di rifiuti solidi urbani nel Comune di Noto.
Così, per essersi rifiutato di accettare manodopera imposta da un clan mafioso, ha subito l’incendio di un autocompattatore. E contro di loro si è poi costituito parte civile.
Questo il leitmotiv dell’inchiesta prima e dei processi poi, che anche in questo secondo passaggio in aula hanno sancito la colpevolezza degli imputati. I blitz, sull’onda delle indagini curate da polizia e guardia di finanza sotto il coordinamento della direzione distrettuale antimafia di Catania, è scattato quattro anni fa.
E la corte d’Appello di Catania ha confermato la sentenza di primo grado emessa dal tribunale siracusano con la pena a nove anni di reclusione – ancor più di quanto chiesto dall’accusa – nei confronti di Angelo Monaco ritenuto tra i maggiori esponenti del clan Trigila e due anni di reclusione per Antonino Rubino a fronte, nel precedente grado del giudizio di una proposta di pena a quattro anni avanzata dal pubblico ministero.