Giacinta Marchione la poetessa alla ricerca dell’invisibile. Canto le colline, con gli occhi che parlano col vento, frequenze di primavera sentono quando l’inverno profuma di melodia… Questo l’incipit della poesia Canto le colline, Premio Speciale Giuria- Il Duomo del 7° Concorso Internazionale di Poesie e Narrativa della città di Cefalù. Assistente sociale con una consolidata carriera alle spalle e una da poetessa ancora tutta da vivere -Giacinta- si è scoperta per caso. Durante i giorni bui del lockdown. Quando si dice -e così è stato!- che dallo sconforto vengono fuori i frutti migliori. Accade che il dolore diventa carnale, brivido di solitudine e smarrimento che si conficca nella pelle come fossero aculei di spine che non accennano neanche lontanamente a cicatrizzare.
Ma alla fine a spuntarla è stata lei. La poesia… e la donna che l’ha partorita. Con dolore forse come ad ogni parto si conviene. Serafica e diafana -come le note dei suoi versi- nella sua candida blusa che non poco contrasta col trucco brillante, Giacinta si racconta senza prendersi troppo sul serio, con l’aria di chi sta partecipando a un gioco piuttosto che a una sfida. Un certo senso di inesistenza l’aveva accompagnata lungo quasi tutta una vita. Ultima di quattro femmine, una condanna senza appello e la pena da scontare di una colpa mai commessa. Ancora in erba Giacinta, mostra un’attitudine per la musica e una propensione allo studio che suggeriscono al padre di orientarla verso altri lidi. Ad accoglierla Cefalù, croce e delizia degli anni della giovinezza, accompagnata da quel vuoto d’amore che le è stato compagno fedele di quel tempo. Lei che, in un paesino di poche migliaia di anime, suonava Guccini e Battiato accompagnandosi con una chitarra per la quale non aveva mai preso lezioni… una pazza più che un talento! Ma se oggi il nome di Giacinta -prolifica di ardore artistico- viene associato alla poesia è solo grazie al suo talento originario che ha permesso a lei, donna sensibile a tratti spigolosa, di trasformare il malessere in arte. Fare esplodere la propria verità per lungo -troppo tempo forse!- taciuta, in modo prepotente come le cose a lungo sopite.
Consapevole e cosciente che ogni rivoluzione, specialmente in una donna, è sempre foriera di ripercussioni. Non sapevo che nascere folle, aprire le zolle, potesse scatenar tempesta a voler scomodare un gigante dei versi che pagò col manicomio la sua alternatività. Perchè “tu subisci, subisci, poi un bel giorno sbotti e dicono che sei matta”. Fortunatamente le cose dal tempo della Merini sono cambiate non poco, almeno in apparenza. E infatti Giacinta adesso si diverte, mentre se ne va in giro pensosa a fotografare quanto di più piccolo e innocente la natura possa regalare agli umani sensi. Quanto di più apparentemente privo di senso. L’invisibile appunto, nell’hobby come nel lavoro. E’ lì, nelle sue passeggiate solitarie, che Giacinta trova ispirazione per la sua lirica che è intima sì ma corale nel contempo. E’ ancora quel dare voce e luce all’invisibile che, come un beffardo gioco del destino o per una di quelle casualità formidabili, la porta a ricevere il primo premio della sua carriera a Cefalù, città che le aveva dato i natali scolastici superiori. Lì dove era già stata attenzionata dal suo prof che, a distanza di parecchi anni, le scrisse “Mi ricordo perfettamente di te”. Un segno l’avrà pur lasciato nella mente di un prof un pò fuori dai canoni. E a lui, Giacinta, in segno di gratitudine e dall’alto della sua ritrovata consapevolezza, accortasi di esistere per fortuna non troppo tardi, dedica la sua vittoria. Consapevole che la più bella pagina l’ha gia scritta! Senza parole.